12 agosto 2007

Storia del Brigantaggio dopo l’Unità di Franco Molfese

Franco Molfese, nelle considerazioni conclusive del suo monumentale e tuttora fondamentale libro sul brigantaggio dopo l’unità d’Italia, si chiede se era possibile evitare l’immane sperpero di vite umane e di ricchezze, provocati dal brigantaggio contadino e dalla repressione statale. Se esisteva nel Sud la possibilità di una diversa soluzione dei rapporti tra classe borghese-liberale e masse contadine. Consapevole comunque che una risposta a tali domande appare sul terreno storiografico sempre azzardata, perché la storia non si scrive con i “se” del senno di poi. Tuttavia, essendo implicito nei fatti storici anche il possibile che non si è realizzato, un ripensamento del genere arricchisce certamente la comprensione dell’accaduto.
La risposta del Molfese è che il grande dramma del brigantaggio avrebbe potuto essere, se non evitato, certamente di molto ridotto nel tempo e nell’intensità da una differente politica dei governi unitari succedutesi nel decennio 1860-1870, guidati da Cavour, Ricasoli, Rattazzi, Farini, Minghetti, La Marmora, Menabrea, Lanza. Evitare completamente il brigantaggio era impossibile, dal momento che esso era stato partorito spontaneamente dalla generale crisi meridionale ad opera di fattori economico-sociali, strutturali e contingenti.
Ma se la politica dei moderati al governo (piemontesi e fuoriusciti napoletani filo-cavouriani) avesse accolto le istanze dei democratici, nelle loro aspirazioni fondamentali: impieghi, sviluppo economico, sicurezza pubblica, il brigantaggio sarebbe stato ridotto e la costruzione dello Stato unitario avrebbe poggiato nel Sud su fondamenta più solide.
Ma così non fu. La Destra moderata, minoritaria nel Sud, fece ricorso alla dittatura militare per reprimere l’offensiva del grande brigantaggio contadino. I salariati-briganti aspiravano al pane, alla libertà, anche alle vendette come forma di rozza giustizia, dibattendosi nelle strette del carovita, della disoccupazione, dei redditi insufficienti. La risposta governativa fu una repressione armata in funzione anti-contadina ed anti-popolare. I contadini del Sud combatterono per anni, contro forze preponderanti, una lotta senza speranza, condannata all’insuccesso. Ma posti di fronte all’alternativa di vivere asserviti in ginocchio o di morire in piedi, scelsero la seconda.
Il libro del Molfese parte dalle prime ondate della guerriglia contadina sviluppatasi dall’autunno del 1860 a tutto l’inverno del 1861, quando agli spontanei movimenti contadini comincia a soprapporsi la reazione borbonico-clericale imprimendo loro un orientamento politico. Il brigantaggio consegue rapidi successi nel Beneventano, nel Molise, in Terra di Lavoro, negli Abruzzi. I moti contadini si intensificarono e si radicalizzarono successivamente in Calabria, Basilicata, Puglia.
Lo scioglimento dell’esercito meridionale garibaldino, con la conseguente frustrazione per le speranze deluse, infoltirono sia di uomini che di rivendicazione le bande brigantesche.
La fine del Regno borbonico delle Due Sicilie, con la resa finale di Gaeta, Messina, Civitella del Tronto e la fuga di Francesco II a Roma presso la corte pontificia, fu un altro elemento che si intersecò con il brigantaggio. I Borboni in qualche modo tentarono di sfruttarlo ai fini di un improbabile tentativo di restaurazione del Regno di Napoli.
Intanto bande armate si andavano costituendo dappertutto, capitanate da valenti e coraggiosi capibanda. Il Molfese, nell’appendice terza del suo libro, pubblica un elenco delle bande brigantesche attive fra il 1861 e il 1870 e ne individua ben 388 (trecentottantaotto), dalle piccole, composte di pochi individui (5-15), fino alle grandi, che raggiunsero e superarono talvolta i 100 uomini, con punte fino a 300-400. Fra le grandi bande, Molfese cita quelle di Giovanni Piccioni, Giacomo Giorgi, Berardo Stramenga nell’Abruzzo Teramano ed Aquilano; di Pasquale Mancini e Salvatore Scenna, Domenico Valerio [Cannone] e Policarpo Romagnoli, Giovanni Di Sciascio, Domenico Saraceni (Pizzolungo) nell’Abruzzo Chietino; di Domenico Coja (Centrillo), Luigi Alonzi (Chiavone), Cedrone, Capoccia, Alessandro Pace, Francesco ed Evangelista Guerra, Domenico Fuoco, Luigi Andreozzi, Tristany nella Terra di Lavoro, Sorano e Stato Pontificio; di Nunzio di Paolo, Giuseppe Schiavone nel Molise, Sannio e Beneventano; di Cipriano e Giona La Gala, Agostino Sacchitiello nell’Irpinia e Salernitano; di Carmine Donatelli (Crocco), Giuseppe Nicola Summa (Ninco-Nanco), Giovanni Fortunato (Coppa), Paolo Serravalle, Pasquale Cavalcante, Donato Tortora, Angelo Antonio Masini, Giuseppe Caruso in Basilicata; Michele Caruso, Angelo Maria Villani (lo Zambro) in Capitanata; Sergente Romano in Terra di Bari e Terra d’Otranto; Mittica in Calabria; Vincenzo Barone in Provincia di Napoli
Sproporzionato appare il numero di quasi 120.000 soldati impegnati dallo stato piemontese nell’opera di repressione, ma questo testimonia come il brigantaggio in quegli anni sia stato un fenomeno di massa, che andava ben al di là dei briganti alla macchia. Questa forza imponente, che rappresentava quasi i due quinti dell’intero esercito italiano, non riusciva, però, a venire a capo della ostinata guerriglia contadina condotta da un numero infinitamente minore ed estremamente fluttuante di armati.
Nel dicembre 1862, dal parlamento torinese, venne istituita la Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul Brigantaggio (CPIB), con l’obiettivo di indagare le cause del brigantaggio, studiare l’oggettiva situazione sul campo e proporre i mezzi per sconfiggerlo. Della Commissione facevano parte due parlamentari della sinistra democratica, un indipendente di sinistra, quattro moderati e governativi, due generali dell’esercito (ex garibaldini). Le Relazioni conclusive della Commissione d’inchiesta vennero presentate alla Camera dei deputati nel maggio 1863.
Il 15 agosto 1863 venne promulgata “la legge Pica” che dava ai tribunali militari la competenza a giudicare i briganti e i loro complici e comminava la fucilazione a chi avesse opposto resistenza a mano armata. Ebbe così inizio una legislazione eccezionale che durò fino al 31 dicembre 1865. Quanti furono i cosiddetti briganti fucilati o uccisi? Il numero preciso non lo si saprà mai, ma furono tantissimi. Molfese, dal secondo bimestre del 1861 e tutto il 1865, ne documenta 5.212. Ma vi è chi ha scritto che i guerriglieri caduti in combattimento in quel decennio furono 155.620 e i fucilati o morti in carcere 120.327. Un massacro. L’olocausto del Sud.
La Storia del Brigantaggio del Molfese è un libro che richiede grande fatica nella lettura; ma chi vuol capire cosa veramente è accaduto in Italia nel decennio 1860-1870, non può fare a meno di leggerlo. Sono riportati e sintetizzati i numerosi dibattiti che si tennero in quegli anni nel parlamento italiano sulla questione del brigantaggio, sono spiegate le ragioni per le quali agli spontanei movimenti contadini andarono pian piano a sovrapporsi le ragioni dei borbonici e degli ambienti clericali, sono riportati dettagliatamente i moltissimi episodi della guerriglia contadina che i Briganti combatterono in tutto il Sud.
Il libro fu pubblicato dalla Feltrinelli nel 1964. Raffaele Nigro, nel suo recente libro Giustiziateli sul campo, scrive che quello del Molfese è un saggio destinato a far luce su alcuni aspetti mai chiariti del Risorgimento italiano, e aggiunge: «Un progetto di rivisitazione della storia d’Italia operata da Giangiacomo Feltrinelli e tendente a dimostrare come l’unità fosse nata a scapito dei contadini meridionali».
Noi abbiamo letto la ristampa a cura delle edizioni Nuovo Pensiero Meridiano del 1983, stampata a Madrid.

Franco Molfese, Storia del Brigantaggio dopo l’Unità, Nuovo Pensiero Meridiano, Madrid 1983, pp. 484

1 commento:

Anonimo ha detto...

Ho letto il libro di Molfese, un opera senza pari.

Rifondazione Borbonica