28 marzo 2009

Il Papa scivola sul preservativo

Chi non scopa vorrebbe che nessun altro scopasse. E' il caso del Papa, dei preti e delle monache, che hanno scelto (forse) di non fare sesso. Loro quindi non hanno titolo ed esperienza per parlare a chi il sesso lo vuole fare. Non capiscono o non vogliono capire quanto sia salutare, rilassante e rigenerante un bel rapporto sessuale.
La Chiesa è sessuofoba. Ma il “niente sesso siamo cattolici” è solo di facciata. Nella pratica solo una minimissima parte di quelli che si dicono cattolici segue gli insegnamenti della Chiesa in questo campo. Al paradiso di dopo nell'altro mondo preferiscono un bel paradisiaco coito in questo mondo.
E poi è biasimevole la solita scorretta presunzione dei cattolici di voler imporre le loro teorie ed i loro credo anche a chi non appartiene alla loro parrocchia. Questa imposizione diviene poi grave e tragica quando ne va di mezzo la salute fisica e mentale degli altri.
E' il caso dell'affermazione di Papa Ratzinger quando ha detto ai giornalisti che l'Aids non può essere combattuta con la distribuzione dei preservativi, che secondo lui possono peggiorare la situazione. Per gli scienziati invece il preservativo è l'unico e il più efficace fra gli strumenti disponibili per ridurre la trasmissione per via sessuale dell'Hiv. E fra fede e scienza io scelgo la scienza.
Una fra le più prestigiose riviste scientifiche del mondo, l'inglese “Lancet”, ha chiesto a Papa Ratzinger di rettificare quanto sostenuto sull'inutilità del preservativo, perché «ha pubblicamente distorto le prove scientifiche per promuovere la dottrina cattolica sul tema». “Lancet” quindi sostiene che quando un personaggio influente fa una falsa affermazione scientifica che potrebbe avere conseguenze devastanti per la salute di milioni persone, questi dovrebbe ritrattare o correggere la linea.
La Chiesa distribuisca viveri e coperte, ma lasci anche distribuire preservativi per salvare milioni di vite umane. E chieda di praticare l'astinenza sessuale ai suoi fedeli, se ne sono capaci.

24 marzo 2009

I Congiurati di Frisio, di Silvio Vitale

Nel Sud contrari all'Unità d'Italia ed all'invasione piemontese non furono solo i cafoni, ma anche parecchi galantuomini. Questa era la tesi che si volle dimostrare nel processo tenutosi a Napoli contro i cosiddetti “congiurati di Friso”.
L'avventura comincia il 23 luglio 1861, alle dieci di sera, quando una pattuglia di carabinieri circonda la casina di Frisio sulla costa di Posillipo. Viene arrestato il prete Bonaventura Cenatiempo, insieme ad altri cinque, sospettati di aver ordito una congiura borbonica. Altri sono riusciti a fuggire in barca. Vengono sequestrati due revolver (ben poca cosa per una ipotetica congiura). Gli arrestati vengono prima portati in questura per essere interrogati e poi in carcere. Nell'agosto del 1861 ha inizio l'istruttoria da parte della magistratura. Viene messo insieme un incartamento di dieci volumi contenenti tutti i rapporti, gli interrogatori e i documenti del processo. Vengono ingaggiati per la difesa degli imputati i migliori avvocati di Napoli. Il 18 luglio 1862 con il processo Cenatiempo viene inaugurata la nuova Corte d'assise. Nell'udienza del 30 luglio 1862 viene eseguita al gruppo degli imputati una fotografia, come si faceva per i briganti. Il dibattimento dura quattordici giorni. La sentenza di condanna viene emessa il 7 agosto 1862.
Tommaso Pedio, nella prefazione al libro, afferma che mentre nel processo Cenatiempo non si hanno prove sulla presenza di un vasto movimento borbonico, ma solo indizi, in altri processi dell'epoca questa prova è certa. Che attivi Comitati borbonici fossero presenti a Napoli e nelle altre province dell'ex Regno delle Due Sicilie è ampiamente provato. E di questi Comitati facevano parte uomini della ricca e media borghesia. Anche se nei processi i galantuomini vengono tutti assolti. Il nuovo potere centrale piemontese voleva dimostrare che nelle province napoletane il movimento borbonico era inesistente. Bisognava dimostrare che Francesco II continuava a mantenere contatti soltanto con delinquenti comuni, ladri ed assassini, i cosiddetti “briganti”. La Magistratura, con le sue sentenze, avvalorava questa tesi ignorando le vere cause che avevano dato origine al brigantaggio postunitario.
Col processo Cenatiempo invece si volle dare un avvertimento ai galantuomini che osteggiavano il nuovo regime. Con la sentenza infatti vennero condannati a dieci anni di lavori forzati un prete, due ufficiali del disciolto esercito borbonico, un gendarme borbonico, un vecchio capo della guardia urbana; a cinque anni di lavori forzati viene condannato un ragazzo quindicenne; vengono assolti due soldati svizzeri ed una fattucchiera. Viene dichiarato esente da pena un delatore.
Al processo, che suscitò grande interesse nell'opinione pubblica, assistettero numerosi giornalisti della stampa italiana ed estera e tra questi Alessandro Dumas e Marc Monnier.
Originariamente, nel processo di Frisio, erano stati accusati di cospirazione in sessanta. Di questi in trentasette furono mantenuti inizialmente in arresto e poi prosciolti. Solo dieci comparvero innanzi alla corte di Assise. Gli altri erano latitanti. E come abbiamo già visto, solo sei vennero condannati.
Ma chi erano i condannati?
Bonaventura Cenatiempo. Vicario generale della diocesi di Avellino e avvocato ecclesiastico. Gesuita, dopo lo scioglimento dell'ordine decretato da Garibaldi, viene nominato dal cardinale di Napoli Sisto Riario Sforza rettore della chiesa del Gesù Nuovo, dove è protagonista di una lunga contesa col frate garibaldino Giovanni Pantaleo da Caltagirone. Perde e viene rimosso dall'incarico. Da allora Cenatiempo frequenta ed anima la resistenza borbonica. Nell'ottobre del 1862 Cenatiempo riesce a fuggire dal carcere di S. Maria Apparente. Raggiunge Roma e viene ricevuto in Vaticano da Pio IX. Passa gli ultimi anni della sua vita in grande povertà, trovando l'ultimo rifugio nell'ospizio di S. Girolamo Emiliani.
Teodulo Emilio de Christen. Conte imparentato con le migliori famiglie dell'epoca. Nato nel 1833, dal 1853 è nell'esercito francese, che lascia nel 1860 col grado di colonnello. Va prima a Roma e poi a Gaeta per porsi al servizio di Francesco II. Combatte negli Abruzzi a fianco dei briganti. Combatte anche insieme al brigante Chiavone di Sora. Dopo la liberazione dal carcere s'imbarca per Marsiglia, ma poi ritorna a Roma dove lo troviamo nel 1870 nello stato maggiore delle truppe pontificie per combattere l'invasione piemontese. Ma Pio IX rinuncia all'inutile scontro con le truppe piemontesi, che entrano in Roma. De Christen viene espulso e due mesi dopo muore.
Achille Caracciolo di Girifalco. Nato a Napoli nel 1829, si arruola come volontario nell'esercito napoletano raggiungendo il grado di alfiere. Segue Francesco II a Capua e Gaeta. Partecipa alla spedizione del de Christen negli Abruzzi. Per qualche settimana è anche al fianco di José Borjes, che partendo dalla Calabria dovrebbe tentare la velleitaria impresa di riconquistare il Regno borbonico. Liberato, come gli altri condannati di Frisio, il 25 novembre 1863 per indulto, emigra in Francia, dove sposa un'americana. Muore nel 1870.
Degli altri condannati Girolamo Tortora, Domenico de Luca e Franceso de Angelis si hanno scarse notizie.
Una menzione a parte merita anche il delatore Ettore Noli, strumento nelle mani dei vincitori piemontesi, per creare un falso processo. Da uomini come lui nacque l'unità d'Italia.
Al processo di Frisio, che all'epoca impressionò molto l'opinione pubblica, si volle dare un carattere di esemplarità. Tutto il Sud – scrive Silvio Vitale – è infatti coperto di insurrezioni legittimiste e occorre scoraggiare e deprimere gli avversari del nuovo regime. In definitiva, la sentenza va vista essenzialmente come uno tra i tanti episodi della repressione politica in atto nel Napoletano negli anni immediatamente successivi al 1860.
Rocco Biondi

Silvio Vitale, I Congiurati di Frisio, Un tentativo di insurrezione borbonica a Napoli durante l'occupazione piemontese, prefazione di Tommaso Pedio, il Cerchio Iniziative Culturali, Rimini 1995, pp. 208

17 marzo 2009

Centrale idroelettrica a Villa Castelli

E' stata inaugurata lunedì 16 marzo 2009 a Villa Castelli (Brindisi) la prima centrale idroelettrica della Puglia. Ente proprietario della struttura è l'Acquedotto Pugliese.
La centrale è in grado di produrre 450 MWatt/h, sufficiente a fornire energia elettrica ad un Comune di circa 3.500 abitanti. Piccola cosa potrebbe sembrare, ma l'Acquedotto Pugliese è impegnato all'attuazione di un piano che prevede la realizzazione a regime di 10 centrali idroelettriche che sfruttano i salti d’acqua trasportata nelle condotte, l’installazione di impianti eolici e fotovoltaici su siti aziendali e la riconversione entro il 2010 di almeno il 30% degli acquisti verdi che sta facendo in forniture eco-compatibili.
Al termine di queste attività programmate, l'Acquedotto Pugliese sarà in grado di produrre circa 33.000 MWatt/h, una quantità sufficiente a servire un Comune di 30.000 abitanti.
Sul suo sito internet così scrive l'Acquedotto Pugliese: «Tra i vantaggi ambientali derivanti dall'adozione del Piano, vi sono: la riduzione dei consumi di materie prime, l'aumento dell'efficienza energetica, la riduzione delle emissioni in acqua ed aria, la riduzione della produzione e della pericolosità dei rifiuti. Il Piano è quindi uno strumento strategico trasversale in grado di agire su più problemi ambientali contemporaneamente».
La centrale idroelettrica di Villa Castelli sfrutta il dislivello di circa 120 metri esistente tra la camera di carico di Montefellone e la camera smorzatrice di Contrada Battaglia. Per produrre energia elettrica viene sfruttata l'energia cinetica naturale provocata dal salto dell'acqua, tramite l’installazione a valle di una turbina. La ruota della turbina è a fusione unica in acciaio inossidabile. Direttamente accoppiato alla turbina vi è un alternatore asincrono del tipo trifase, lubrificato a grasso.
La centrale idroelettrica di Villa Castelli è all’avanguardia sotto l’aspetto tecnico e gestionale. Completamente automatizzata, è altresì dotata di un sistema di telecontrollo e di telecomando a distanza.
Questa centrale non è nuova, già esisteva nel 1929. Ha prodotto energia elettrica fino al 1971. Oggi, a distanza di quasi 40 anni, grazie all’impiego di nuove tecnologie ed all’impegno dell’Acquedotto Pugliese, è nuovamente in esercizio.
Nel giorno della nuova inaugurazione è stata festa grande. Erano presenti le massime autorità dell'Acquedotto Pugliese, a cominciare dall'amministratore unico Ivo Monteforte. Per la Regione Puglia era presente la consigliera per le questioni internazionali e tecnologiche Danielle Gattegno Mazzonis, al posto del presidente Nichi Vendola (colpevolmente assente) che pure aveva assicurato la sua presenza. Era presente il sindaco di Villa Castelli Francesco Nigro, con la fascia tricolore. Erano presenti alunni delle scuole di Villa Castelli. Erano presenti tantissime televisioni e giornalisti della carta stampata, nazionali e locali. Fra le tantissime dichiarazioni rilasciate mi piace riportare quella della Mazzonis: «La centrale di Villa Castelli è ad emissioni zero ed è, tra l'altro, immersa in un ambiente naturale bellissimo e ricco di uliveti. Rappresenta la prova di come sia possibile produrre energia elettrica senza alcun impatto per il territorio. Siamo convinti che l'Italia non ha bisogno del nucleare».
Alla fine della cerimonia di inaugurazione ricchissimo buffet per tutti, all'aperto.
Sulla storia della centrale idroelettrica di Villa Castelli, nell'anno accademico 2005/2006 presso l'Università di Lecce, Giancarlo Ciracì aveva discusso una corposa e dettagliata tesi di laurea in archeologia industriale dal titolo “L'Acquedotto del Sele e la centrale idroelettrica Battaglia”.
E' ovvio, per me che risiedo a Villa Castelli, che alla cerimonia di inaugurazione della centrale idroelettrica ho partecipato anch'io.

8 marzo 2009

Berlusconi e le donne

L'allegro presidente del consiglio italiano Silvio Berlusconi è stato denunciato alla Corte europea di Strasburgo «per violazione degli articoli 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, a causa delle continue e ripetute dichiarazioni di disprezzo sulla vita e la dignità delle donne».
L'ennesima occasione è stata data a due donne parlamentari del Pd dalle ultime vergognose battute di Berlusconi, quella fatta al presidente francese Nicolas Sarkozy: «Moi je t'ai donné la tua donna» (ti ho donato la tua donna) e l'altra su Eluana Englaro che da 17 anni giaceva inerme su un letto d'ospedale: «Potrebbe anche avere un figlio». Berlusconi non ha detto come, se con una inseminazione artificiale o magari con una scopata con lui. Si vergogni, se ne fosse capace.
«Berlusconi - dicono le denuncianti - svilisce costantemente il valore delle donne. Speriamo che le italiane capiscano cosa c'è dietro le sue battute. C'è un disprezzo profondo verso l'universo femminile, una concezione arcaica, da età della pietra, delle donne come proprietà dell'uomo». Io penso invece che le donne non lo capiscano per niente, altrimenti non lo voterebbero. Anzi le donne oggetto lo difendono a spada tratta, come ha fatto una sua creatura nominata ministro delle pari opportunità per la sua avvenenza: Mara Carfagna (nella foto), quella dei nudi integrali sui calendari per noi uomini galli.
Tante altre sono state le battutacce di Berlusconi contro le donne. Alla ragazza in cerca di lavoro: «Sei precaria? Sposa un miliardario!». Durante un comizio elettorale a Sassari, Berlusconi teorizza che «per evitare gli stupri servirebbe un militare per ogni bella donna». La stessa moglie Veronica Lario fu oggetto di pesanti allusioni da parte di Berlusconi a proposito delle voci di una liaison con Massimo Cacciari: in quell'occasione Berlusconi disse dell'allora presidente di turno dell'Unione Europea Andres Fogh Rasmussen: «E' il primo ministro più bello d'Europa, penso di presentarlo a mia moglie perché è anche più bello di Cacciari». Alla showgirl Aida Yespica Berlusconi disse: «Io con te andrei ovunque». E di Mara Carfagna disse: «Se non fossi già sposato me la sposerei». Per questa battuta la moglie Veronica chiese ed ottenne le scuse pubbliche da Berlusconi.
Questa battute del playboy incallito, quale Berlusconi stesso si è sempre dichiarato, non sono per niente piaciute a Paola Concia, una delle firmatarie della denuncia alla Ue. Berlusconi manda un messaggio culturale devastante. Non ha senso fare i decreti antistupro, se poi della donna si dà costantemente un'immagine mercificata, offensiva, degradante.
Berlusconi è il campione dell'otto marzo ridicolizzato.