28 dicembre 2010

Il libro degli Area, di Domenico Coduto


“La nostra musica è violenta perché nella strada c'è violenza” dichiarava in un'intervista Demetrio Stratos nel 1974, parlando del tipo di musica che suonava il gruppo Area. Al centro dell'attenzione degli Area, scrive Coduto, c'erano le lotte degli studenti e degli operai, la problematica del lavoro, l'alienazione dell'individuo, il marxismo, il terrorismo, la politica e il quadro internazionale. Il gruppo mise la propria musica al servizio di quelle lotte. Il suono degli Area era una forma di lotta per se stesso. La loro musica, liberandosi dai limiti della forma canzone e utilizzando linguaggi eterogenei: jazz, rock, pop, musica mediterranea, elettronica, lanciava un messaggio nuovo e dirompente, senza la necessità di un accompagnamento didascalico del testo.
Il nome completo del gruppo è “Area - International POPular Group”, nacque nel 1972, nella formazione iniziale comprendeva: Demetrio Stratos (voce), Giulio Capiozzo (batteria), Eddy Busnello (fiati), Patrick Djivas (basso), Johnny Lambizi (chitarra), Leandro Gaetano (tastiere); quasi subito uscirono dal gruppo Leandro e Lambizi e subentrarono Patrizio Fariselli (tastiere) e Paolo Tòfani (chitarra e sintetizzatori).
Con quest'ultima formazione nel settembre 1973 esce il primo disco degli Area, intitolato Arbeit macht frei [Il lavoro rende liberi], la scritta che compariva all'ingresso dei campi di concentramento nazisti. In quel titolo c'era il richiamo sia allo sterminio degli ebrei, sia all'espulsione dei palestinesi dalla Giordania, ma anche alla questione del lavoro, alle proteste operaie, agli scontri violenti di quegli anni, quasi a voler dire - come sintetizza Coduto - “Attenzione! Il lavoro non rende liberi, ma è solo una trappola della società moderna che ci vuole inquadrati e ben disposti a compiere il nostro dovere mettendo a tacere il cervello”. Gli altri brani presenti, oltre a quello che dà il titolo a tutto il disco, erano: “Luglio, agosto, settembre (nero)” (era ancora vivo il terribile ricordo delle Olimpiadi di Monaco 1972, quando un commando chiamato “Settembre nero” aveva fatto irruzione nel Villaggio Olimpico uccidendo undici atleti israeliani e causando la morte di un poliziotto e cinque uomini del commando stesso), “Consapevolezza” (si esplica il tema dell'alienazione dell'individuo e del riappropriarsi della realtà), “Le labbra del tempo” (con sonorità liquide ma non rassicuranti), “240 chilometri da Smirne” (solo strumentale, struttura tipica del jazz e dopo il giro di improvvisazioni dei vari strumenti si conclude con il tema iniziale), “L'abbattimento dello Zeppelin” (attacco contro il rock anglo-americano del quale i Led Zeppelin erano i massimi esponenti).
Alla fine del 1973 gli Area tennero una serie di concerti politici. Suonarono anche in alcuni concerti di solidarietà con il Cile, dove il generale Pinochet con un colpo di stato aveva rovesciato il governo democraticamente eletto di Salvador Allende. Vennero invitati a Parigi per esibirsi all'8a Biennale nella sezione Suono.
Gli Area erano nati a Milano, che negli anni Sessanta e Settanta era diventata un fiorente centro di cultura e controcultura con una forte presenza dei movimenti studenteschi e operai. Culla della borghesia intellettuale di sinistra, sede della grande editoria nazionale: Feltrinelli, Mondadori, Bompiani. A Milano i “capelloni” avevano dato vita alla prima comune all'aperto. Erano nati Mondo Beat, il primo giornale dell'underground italiano, e Re Nudo, la prima rivista alternativa. Quest'ultimo giornale organizzò al Parco Lambro di Milano in tre anni successivi tre enormi raduni musicali, a metà strada fra underground e politica; in tutte e tre queste occasioni suonarono gli Area.
Milano era anche la casa del mondo discografico. Il più grande animatore della controcultura, specialmente musicale ma non solo, fu Gianni Sassi. Cresciuto con una formazione politica comunista, mise in circolo esperienze diversissime tra loro: editoria, arte, teatro, marketing, musica. Sassi, insieme a Sergio Albergoni e Franco Mamone, decisero di fondare una propria etichetta: la Cramps Records, principalmente per l'esigenza di seguire la produzione degli Area, senza dispersioni di energia e denaro. Sassi divenne un vero e proprio componente degli Area, anche se non suonava: scrisse i testi delle loro canzoni, confezionava i loro album nei minimi dettagli, progettava tutta la comunicazione del gruppo.
Nel frattempo avevano lasciato il gruppo Eddy Busnello e Patrick Djivas; il primo non venne sostituito, al posto del secondo, al basso, subentrò Ares Tavolazzi. All'inizio del 1974 uscì un nuovo disco Caution Radiation Area. Disco totalmente diverso dal precedente, ancora più avanzato nella ricerca di nuovi suoni. La musica degli Area - scrive Coduto - “si dirige verso il terreno più spigoloso e accidentato dell'elettronica, imbastardita con i suoni del jazz e lo spirito sanguigno del rock”. Fanno parte del disco i brani: “Cometa Rossa”, “ZYG (Crescita Zero), “Brujo”, “Mirage? Mirage!”, “Lobotomia”. Quest'ultimo pezzo era ispirato dalla vicenda di Ulrike Meinhof, tra i fondatori della tedesca R.A.F., gruppo terroristico armato della Germania Occidentale; nel 1972 la Meinhof era stata catturata e si tentò di imporle una lobotomia, impedita soltanto da grandi manifestazioni popolari.
Gli Area erano diventati un gruppo importante, che veniva invitato a suonare dappertutto. Da maggio a settembre del 1974 tennero circa 28 concerti. Tennero anche un concerto a Trieste nell'Ospedale Psichiatrico diretto da Franco Basaglia. Nell'estate del 1974 gli Area furono gli unici ospiti italiani all'International Pop Festival di Berna, in Svizzera.
Nella primavera del 1975 uscì l'album Crac!, curato come i dischi precedenti a Londra, negli studi Trident, da Paolo Tòfani e Patrizio Fariselli. Gli Area pur continuando a cantare la società con le sue tensioni e contraddizioni, ora guardando avanti cercano gli aspetti più positivi della realtà e della lotta. La realtà politica tra il 1974 e 1975 - scrive Coduto - appariva, per certi aspetti più gioiosa e positiva, e gli Area, che si sono sempre ispirati alla realtà, non potevano fare a meno di registrare quel clima. Tra l'altro nel 1975 si era finalmente conclusa la guerra del Vietnam. Ecco i brani che compongono l'album: “L'elefante bianco”, “La mela di Odessa” (prende spunto da un fatto realmente accaduto nel 1920, quando un artista Dada di nome Apple [la mela] dirottò una nave di tedeschi [la foglia] portandola fino a Odessa per regalarla ai russi, che organizzarono una grande festa facendo esplodere la nave con i tedeschi a bordo), “Megalopoli” (quella città è Brasilia), “Nervi scoperti”, “Gioia e rivoluzione” (gioiosa ballata folk), “Implosione”, “Area 5” (il numero fa riferimento ai cinque componenti del gruppo). Crac! ricevette apprezzamenti pressoché unanimi dalla stampa musicale. Il disco si aggiudicò il premio della Critica Discografica nel 1975 per la musica progressiva italiana.
Dopo tre dischi in studio sul finire del 1975 dalla Cramps venne pubblicato un disco dal vivo Are(A)zione. In quell'anno gli Area tennero circa duecento concerti. Il disco è il frutto della registrazione di alcuni di quei concerti. Contiene i brani “Luglio, Agosto, Settembre (nero)”, “La mela di Odessa (1920)”, “Cometa rossa”, “Are(A)zione”, “L'Internazionale” (pezzo famosissimo degli Area, che sintetizzava le immagini politiche del movimento, la rabbia, la gioia di partecipare, la rivoluzione inseguita, la festa dei grandi raduni).
Il 1976 fu quasi completamente dedicato allo studio e alla ricerca individuale. Demetrio Stratos pubblica Metrodora, una ricerca sulla voce utilizzata come uno strumento; sono presenti vari segmenti dove gli esperimenti con la voce vengono portati all'estremo limite. Paolo Tòfani, con lo pseudonimo di Electric Frankenstein, pubblica What me worry?, un album di canzoni in inglese semplici e dirette, frutto delle esperienze londinesi.
Comunque nel 1976 ci furono anche importanti esibizioni dal vivo degli Area, fra cui un concerto in Francia alla Fete dell'Humanité di Parigi e alcune date in Portogallo. Sul finire del 1976, al ritorno dall'estero, gli Area sempre su etichetta Cramps pubblicano il quinto LP: Maledetti (maudits). E' un album fondato sull'immagine fantascientifica di una società guidata da un cervello elettronico, che per un guasto perde la memoria storica (“Evaporazione” e “Il massacro di Brandeburgo numero tre in Sol maggiore”), causando una grande confusione sociale (“Diforisma urbano”); per risolvere la situazione gli Area propongono tre possibili soluzioni con i tre brani: “Gerontocrazia” (affidare il potere agli anziani), “Scum” (affidare il potere alle donne), “Giro, giro, tondo” (dare il potere ai bambini). In questo disco, oltre ai componenti storici (anche Capiozzo e Tavolazzi che nel frattempo se ne erano andati) suonarono anche diversi altri musicisti, formando così un gruppo aperto.
Durante il periodo della registrazione del disco, gli Area il 27 ottobre 1976 furono chiamati a suonare nell'Università Statale di Milano occupata. Suonarono improvvisando in base allo stato emozionale suggerito dalle indicazioni contenute su alcuni foglietti di carta dove erano scritte le parole: Ipnosi, Sesso, Ironia, Silenzio e Violenza; ogni tre minuti venivano scambiati i foglietti e cambiava l'emozione da interpretare. Il pubblico rimase completamente spiazzato, si aspettava il repertorio classico degli Area e non quell'esperimento. Quella straordinaria serata fu documentata nel disco Event '76 (pubblicato dalla Cramps nel 1979). Quest'ultima pubblicazione era stata però anticipata con l'incisione in studio di “Caos (parte II)” inserita come ultimo brano di Maledetti.
Nell'estate del 1977 la formazione storica degli Area (Capiozzo, Fariselli, Stratos, Tavolazzi, Tòfani) effettua un tour sviluppantesi in una quindicina di esibizioni; durante lo spettacolo venivano eseguiti brani selezionati dai quattro album registrati in studio. Il nome dato al tour fu Anto/logicamente, che è anche il titolo di un nuovo disco degli Area comprendente sette brani tratti dai precedenti lavori discografici.
Nel 1978 gli Area lasciano la Cramps e registrano con l'etichetta Ascolto 1978, gli dei se ne vanno gli arrabbiati restano; a dieci anni di distanza gli Area vogliono dire la loro sul '68, avvertono che è finita un'importante fase storica e se ne è aperta una nuova, scivolata nella violenza e nella lotta armata di alcuni e nel disinteresse delle masse. Il movimento nato nel '68 era fallito. E cambia anche la musica. L'album è più accessibile e fruibile rispetto ai lavori precedenti. Brani presenti: “Il bandito del deserto”, “Interno con figure e luci”, “Return from Workuta”, “Guardati dal mese vicino all'aprile!”, “Hommage à Violette Nozières”, “Ici on dance!”, “Acrostico in memoria di Laio”, “"FFF" (festa, farina e forca)”, “Vodka Cola”. Dalla formazione storica manca Tòfani, che era uscito dal gruppo nel 1977.
Nel 1979 anche Stratos lascia gli Area per seguire personali progetti musicali; ma il 13 giugno 1979, affetto da una gravissima aplasia midollare, muore a New York.
Nel 1993 era morto Gianni Sassi, seguito da Giulio Capiozzo nel 2000.
Qui finisce la mia recensione del libro di Coduto sugli Area. Ma voglio aggiungere qualche notazione personale. Il 5 luglio 1980, in qualità di assessore alla cultura, portai gli Area a esibirsi (gratuitamente per il pubblico) nella piazza del mio Comune di Villa Castelli, in provincia di Brindisi. Il 17 dicembre 2010 ho partecipato, nel Teatro Kursaal Santalucia di Bari, al concerto AREA reunion con Patrizio Fariselli, Paolo Tòfani e Ares Tavolazzi, accompagnati alla batteria da Walter Paoli. Gli Area sono stati, sono e rimarranno grandi.
Rocco Biondi
  
Domenico Coduto, Il libro degli Area, Auditorium Edizioni, Milano 2009, pp. 208, € 12,50

7 dicembre 2010

Panettoni del Sud


Con la Festa dell'Immacolata entriamo appieno nel periodo natalizio. Siamo tutti indotti dalla pubblicità a svuotare i portafogli, grossi o magri che siano. Addobbi, regali, pranzi speciali. E soprattutto panettoni, quasi tutti prodotti al nord.
Molti amici meridionali hanno lanciato la campagna di boicottaggio del panettone. Non acquistiamo panettoni, per non continuare a favorire l'industria del nord, per non continuare ad arricchire il nord. Io ho deciso di aderire. Ma allo stesso tempo non vorrei rinunciare al gusto di assaporare il dolce panettone. Ed allora mi sono messo alla ricerca in internet di marche di panettoni prodotti al Sud. E' stata una fatica immensa, con scarsissimi risultati.
Inizialmente sono stato tratto in inganno. Dopo aver cliccato in google “panettoni produttori”, sembrava di aver individuato su un totale di 42 produttori 5 produttori meridionali. Ed invece no, quelle aziende meridionali erano solo dei grossisti che commerciavano panettoni del nord.
Un colpo di fortuna l'ho avuto rintracciando su facebook una nota che riproduceva un articolo del “Giornale di Sicilia” (01/12/2010) intitolato “A Milano tutti pazzi per il panettone siciliano dei Fiasconaro”. Finalmente un panettone prodotto al Sud. I fratelli Fiasconaro operano a Castelbuono in provincia di Palermo. E con successo, se gli americani hanno deciso qualche tempo fa di lanciare nello spazio, come cibo per gli astronauti, dei panettoni dei fratelli Fiasconaro.
Il panettone, pur nascendo in Lombardia, in realtà viene prodotto in tutta Italia ed ogni regione aggiunge il suo tocco caratteristico.
Moltissimi pasticcieri del nostro Sud producono propri panettoni artigianali. Ed allora non compriamo i vecchi panettoni commerciali, ma compriamo quelli prodotti dai bravi pasticcieri di vicino casa nostra e della nostra città. Costeranno forse un poco di più, ma avremo lasciato i soldi meridionali ai nostri compaesani del Sud.
Magari potremo trovare i panettoni del Sud nei supermercati “CompraSud”, che cominciano a nascere nel nostro meridione e con la prospettiva di aprire anche al nord. Slogan dei “CompraSud” è «il SUD che produce, si allea con l'Italia che consuma». Vengono offerti prodotti prelibati di qualità, provenienti da aziende calabresi, pugliesi, lucani, siciliane, sarde e campane. Acquistare nei “CompraSud” contribuisce a sostenere le aziende del Sud, che spesso vedono i loro prodotti perdere nella competizione con quelli più pubblicizzati delle industrie del nord. Scegliere i prodotti del Sud significa aiutare le nostre imprese e dare più lavoro ai nostri giovani. Speriamo che i supermercati “CompraSud” si diffondano rapidamente.
Panettone sì, ma del Sud.

23 novembre 2010

Gigi Di Fiore ai Sabati Briganteschi

Sabato 27 novembre 2010 - Ore 18,00
Sala Consiliare Comune di Villa Castelli - Piazza Municipio

Nell'ambito dei “Sabati Briganteschi” (ultimo sabato di ogni mese), organizzati dall'Associazione “Settimana dei Briganti - l'altra storia”,

GIGI DI FIORE, giornalista e saggista, terrà una relazione sul temaControstoria dell'Unità d'Italia e brigantaggio meridionale” e PIETRO GOLIA, editore e giornalista, presenterà il libro di Gigi Di Fiore: “Gli ultimi giorni di Gaeta”.

Giuseppe Garibaldi scrisse: “Quando i posteri esamineranno gli atti del governo e del Parlamento italiano durante il risorgimento, vi troveranno cose da cloaca”. Poco da commentare.

Camillo Benso di Cavour ha detto: “Nel Regno di Napoli noi troviamo altra civiltà, altre tendenze e in parte anco altri interessi. Trattasi dunque di fare una vera rivoluzione nel Paese per procacciarne l'annessione”. Anche Cavour riteneva che quella del Sud è stata una pura annessione da parte del governo piemontese.

GIGI DI FIORE, giornalista e saggista. Ha lavorato a il Giornale diretto da Indro Montanelli come redattore del settore Interni. Attualmente è inviato speciale a Il Mattino di Napoli. Ha ottenuto il Premio Saint Vincent per il giornalismo nel 2001. Studioso di storia del controrisorgimento e del brigantaggio post unitario.
Ha pubblicato tra l'altro: 1861, Pontelandolfo e Casalduni un massacro dimenticato, Grimaldi (1998); I vinti del Risorgimento, Utet (2004); Controstoria dell'unità d'Italia - Fatti e misfatti del Risorgimento, Rizzoli (2007); Gli ultimi giorni di Gaeta - L'assedio che condannò l'Italia all'unità, Rizzoli (2010).

PIETRO GOLIA, editore e giornalista. Titolare della Casa editrice Controcorrente di Napoli.

Il gruppo teatrale “Briganti in scena” leggerà brani dai libri di Gigi Di Fiore “Controstoria dell'Unità d'Italia” e “Gli ultimi giorni di Gaeta”.
Regia di Pino Rossini

18 novembre 2010

Lettera meridionale da una siciliana del Belgio


Concetta Moscato mi ha inviato su facebook un messaggio che mi piace pubblicare in questo mio diario-blog. Fa piacere constatare che l'impegno ed il lavoro per far conoscere la vera storia di noi meridionali qualche buon frutto riesce a darlo.

Prima di tutto le chiedo scusa se il mio italiano è imperfetto, spero che capirà il mio messaggio, ma essendo emigrata in Belgio da tanti anni non ho avuto modo di impararlo bene, comunque lo leggo e lo capisco benissimo.
Sono siciliana e fiera di esserlo, da sempre; la mia famiglia è stata sempre fiera di ciò che siamo, ma non ho saputo mai bene il perché di tanto "nazionalismo", della storia d'Italia ne conoscevo solo quel poco che mi hanno insegnato ai corsi d'italiano del consolato di Liegi.
Quest'estate sono stata in ferie in Toscana con il mio compagno e devo dirle che per la prima volta in vita mia ho sentito il razzismo verso le mie origini meridionali, qui in Belgio gli italiani siamo perfettamente integrati e amati.
In una libreria un libro ha attirato la mia attenzione, era il libro di Pino Aprile; tornata in Belgio ho fatto certe ricerche su internet ed ho scoperto il vostro blog, è stata una rivelazione, finalmente LA NOSTRA VERA STORIA.
Sto leggendo il libro di Ciano che ho trovato su ebay, sono sconvolta da tutto quello che ci è stato fatto a noi "terroni".
Tutto questo per dirle che la ringrazio di vero cuore per aver dato un senso alla mia sicilianità, ora posso raccontare ai miei figli quelli che erano davvero i siciliani prima di diventare quelle belve senza educazione e morti di fame al dire di certuni.
E' tempo di fare sapere a tutta la gente del sud la nostra vera storia, perché c'è ancora gente che crede a tutte quelle menzogne che ci sono state raccontate per nascondere quello che ci è stato fatto; troppo spesso in Sicilia non si insegna più il siciliano ai bimbi perché giudicato volgare, ci hanno rubato la nostra terra, la nostra storia e presto ci ruberanno anche le nostre radici se restiamo immobili.
Grazie di cuore Signor Biondi.
Concetta Moscato

13 novembre 2010

Viva l'Italia, di Aldo Cazzullo - Cazzate


Le cazzate del libello di Cazzullo 
Quello di Cazzullo è un libello che contraddice appieno la finalità per la quale sarebbe stato scritto: unire gli italiani. E' allo stesso tempo inutile e dannoso. Quelli del Comitato per i 150 anni dell'unità d'Italia dovrebbero (se ne avessero il potere) farlo ritirare dalla circolazione. Ma mi auguro che la censura sia naturale: siano i lettori a non farlo circolare.
E' un'accozzaglia di luoghi comuni. Vengono ignorati o irrisi tutti gli studi più recenti sul cosiddetto “risorgimento”. Ma quel che è peggio, vengono insultati studiosi seri che finalmente cominciano a mettere in luce i misfatti che portarono e conseguirono alla cosiddetta “unità d'Italia”, dal 1860 ai giorni nostri.
Di Pino Aprile e del suo “Terroni” (peraltro senza nemmeno citarli) il Cazzullo scrive: «Il best seller che comincia con il terrificante attacco: “Io non sapevo che i piemontesi fecero al Sud quel che i nazisti fecero a Marzabotto. Ma tante volte, per anni...” (un attacco in cui non c'è una sola parola giusta, dall'empio riferimento a Marzabotto alla definizione di “piemontesi” per l'esercito italiano)».
Di Gigi Di Fiore e del suo “Gli ultimi giorni di Gaeta” (anche questa volta senza citarli) il Cazzullo scrive: «Il saggio su Gaeta intitolato L'assedio che condannò l'Italia all'unità, come se l'unità fosse una sciagura».
Persino di Giordano Bruno Guerri il Cazzullo ha scritto: «E' vero, uno scrittore intelligente come Giordano Bruno Guerri ha detto che i libri sul Risorgimento annoiano. Ma può essere che si sbagli, e sia vero il contrario».
Cazzullo dovrebbe riflettere sul perché - come lui stesso scrive - sono infinite le «denigrazioni di cui i padri della patria [n.d.r. Garibaldi, Vittorio Emanuele 2°, Cavour, Mazzini] sono stati oggetto»; e sul perché - come lui stesso dice - questa lista di denigratori sia sterminata. E sul perché - come ancora lui lamenta - sono ritenuti «molto più italiani Ninco Nanco, Crocco, Fra' Diavolo e gli altri briganti, anzi patrioti meridionali».
Il Cazzullo farebbe bene a non irridere e banalizzare «i neoborbonici, nostalgici di festa farina e forca, e i sanfedisti, che rimpiangono l'Inquisizione e le insorgenze antimoderne con i forconi». Cazzullo prima di scrivere cazzate farebbe bene ad informarsi.
E per finire, è almeno una caduta di stile l'accusa di “sciovinismo, meschino e rancoroso”, che Cazzullo rivolge a chi «se la prende con Napoleone razziatore di opere d'arte» italiane. Per lui è “esaltante” incontrare quelle opere nei Musei stranieri. Ma Cazzullo forse è un italiano rinnegato.
Talvolta “nomen omen est”.

8 novembre 2010

La melmificazione


Da molto tempo ormai, in questo mio diario, non (s)parlo più di Berlusconi. Mi sono reso conto che era perdita di tempo. Lui continua imperterrito, assecondato, nella progressiva melmificazione delle coscienze. Il termine melmificazione è un neologismo, composto da: melma, fica, azione.
Ma l'occasione, offerta da “L'espresso” n. 45/2010, è molto ghiotta e non ho voluto lasciarmela sfuggire. E' l'elenco di 72 (settantadue) Papi-Girls entrate, nell'ultimo triennio, nell'harem di Silvio Berlusconi.
Eccole, a futura memoria, in ordine sparso: Nicole Minetti (consigliere regionale Lombardia), Federica Gagliardi (accompagnatrice del premier al G8 del Canada), Mariarosaria Rossi (deputata), Michela Vittoria Brambilla (ministro del Turismo), Mara Carfagna (ministro per le pari Opportunità), Maria Stella Gelmini (ministro dell'Istruzione), Elvira Savino (deputata), Laura Comi (europarlamentare), Gabriella Giammanco (deputata), Licia Ronzulli (europarlamentare), Sabina Began (attrice), Francesca Romana Impiglia (giornalista), Anna Palumbo (mamma di Noemi), Vivian Andreoli (pittrice), Ruby Rubacuori (nome d'arte nel bunga bunga), Noemi Letizia (diciottesimo compleanno), Roberta (amica di Noemi), Patrizia D'Addario (escort), Francesca Lodo (attrice), Barbara Guerra (ex fidanzata di Balotelli), Graziana Capone (collaboratrice d'immagine), Terry De Nicolò (escort), Ioana Visan (escort), Mary De Brito (amica di Tarantini), Stella Schan (amica di Tarantini), Donatella Marazza (ospite di Silvio), Letizia Filippi (presunta fiamma di Ronaldo), Chiara Guicciardi (stilista), Niang Kardiatou (senza professione), Stella Maria Novarino (stilista), Luciana Francioli (modella brasiliana), Sonia Carpedone (ospite), Roberta Nigro (“sorella” della Carpedone), Chiara Sbarbossa (cancellata dalle liste), Elisa Alloro (ha detto: “Berlusconi è come la Nasa”), Clarissa Campironi (viaggiatrice a pagamento), Vanessa Di Meglio (escort), Lucia Rossini (cena a scrocco), Francesca Garasi (destinataria del messaggio “stai attenta”), Barbara Montereale (fotografa nei bagni), Francesca Pascale (fondatrice di “Silvio ci manchi”), Emanuela Romano (assessore a Castellamare), Virna Bello (assessore a Torre del Greco), Eleonora ed Emma De Vivo (gemelline dell'“isola dei Famosi”), Giovanna del Giudice (assessore alla provincia di Napoli), Nunzia de Girolamo (deputata), Elena Russo (attrice di Mediaset), Antonella Troise (una “pazza pericolosa”), Evelina Manna (attrice di Mediaset), Camilla Ferranti (tronista), Eleonora Gaggioli (attrice), Carolina Marconi (“Grande Fratello”), Siria de Fazio (“lesbica” del GF9), Angela Sozio (“la rossa” del GF), Imma di Ninni (numero uno del reality trash), Camille Coerdiro Charao (valletta ex di Gianluca Galliani), Linda Santaguida (valletta), Francesca Lana (soubrette), Maria Esther Garcia Polanco (ospite ad Arcore), Michaela Pribisova (non retribuita), Geraldine Semeghini (discoteca “Billionaire” di Briatore), Manuela Arcuri (ospite con orgoglio), Aida Yespica (con lei Berlusconi andrebbe ovunque), Barbara Matera (letteronza ed europarlamentare), Barbara Pedrotti (sulle ginocchia di Silvio), Virginia Sanjust (legata ai servizi segreti), Sonia Grey (conduttrice), Susanna Petrone (guida al campionato), Manuela e Marianna Ferrera (ospiti gemelle), Barbara Faggioli (scuderia di Lele Mora).
Saranno veramente tutte passate nel lettone di Berlusconi? Io ho fatto una gran fatica a trascriverle tutte.

6 novembre 2010

Quell'“amara” Unità d'Italia, di Dora Liguori


Le storie che si leggono nel libro di Dora Liguori sono le stesse che abbiamo letto sui libri di storia a scuola, ma il punto di osservazione è totalmente diverso. Talvolta vengono usati ironia e sarcasmo.
Vengono presentati gli avvenimenti, storici e sociali, accaduti in Italia nei primi settantanni del diciannovesimo secolo, con particolare riguardo al decennio (1860-1870). Sono gli anni del cosiddetto (a posteriori) “Risorgimento”, quando si fece l'amara unità d'Italia. Unità che si è rivelata per il meridione come la più immane delle tragedie.
Sui fatti accaduti in quel periodo continua ancora a permanere il segreto di Stato. Una massa di documenti, circa centocinquantamila, dopo centocinquanta anni da quella Unità, sono ancora segretati. La verità continua ad essere occultata.
Per glorificare quella che fu spacciata come una liberazione, i vincitori Savoia assoldarono scrittori dell'epoca che fecero diventare inoppugnabile verità storica quello che era frutto di una spregiudicata fantasia. Nella realtà si trattò di una nuda e cruda conquista territoriale del Regno delle Due Sicilie.
Alla falsificazione storica un contributo determinante lo ha dato negli anni successivi il filosofo meridionale Benedetto Croce. La sua lettura addomesticata della storia è passata poi in tutti i libri scolastici. Chiunque volesse intraprendere la carriera universitaria era costretto ad adeguarsi. Il Sud ancora oggi sta pagando per quella falsa interpretazione della storia. E' solo una bella favola quello che è stato raccontato circa il processo idealistico che portò all'Unità d'Italia. La conquista del Sud invece fu soprattutto un intrigo, legato ad interessi internazionali, che deciso all'estero si giocò in Italia con il sangue dei meridionali.
Per giustificare l'annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte sabaudo fu costruito un castello di menzogne, favoleggiando di un Sud pezzente e sottosviluppato in attesa del salvifico intervento del re piemontese. L'invenzione di eventi, uno più falso dell'altro, continua a rappresentare un'offesa alla verità. Ma, cosa che è ancora più grave, si è scientificamente voluto annullare nei meridionali anche la memoria delle vere drammatiche vicende che portarono alla distruzione del Sud. I cantori del cosiddetto “risorgimento” hanno consegnato alla storia una serie di ridicole e false “agiografie” dei cosiddetti “padri della patria”, quali Mazzini, Garibaldi, Cavour, Vittorio Emanuele 2°. Dora Liguori col suo libro si prefigge di ricostruire, senza pregiudizi, una stagione storica che fu tragica per tutti gli italiani.
Gli Italiani del Sud subirono, nel primo decennio del periodo post unitario, la stessa sorte che subivono in quegli stessi anni gli Indiani d'America ad opera dei bianchi e che avrebbero subito qualche anno dopo gli Ebrei ad opera dei nazisti: genocidio e deportazione. Meridionali e briganti, uomini, donne e bambini, furono massacrati senza alcuna pietà. Fenestrelle fu un lager, costruito dai Savoia nel torinese, dove furono deportati e trovarono la morte migliaia di meridionali.
Ma mentre i governi americani e tedeschi hanno riconosciuto, ed in qualche modo risarcito, i loro errori ed orrori nei confronti degli indiani e degli ebrei, i governi italiani hanno nascosto e addirittura negato le loro mostruosità perpetrate contro i meridionali. Con la conseguenza che la quasi totalità dei giovani meridionali di oggi ignorano quei tragici fatti.
All'inizio del libro viene chiarito il concetto di nord e sud, affermando poi che per millenni il sud del mondo conosciuto è stato sinonimo di civiltà e culla dei “saperi”. E Napoli, la capitale del Sud, ha vissuto prima dell'amara unità una splendida stagione culturale in tutti i campi del sapere: letteratura, filosofia, musica, scienze, archeologia, astronomia, medicina, architettura, pittura. Napoli era uno dei centri più progrediti del mondo. Tutto fu distrutto con la brutale aggressione ad opera dei Savoia. Il Sud quindi non aveva interesse e non ha chiesto ai Savoia di essere liberato. Il Sud fu aggredito ed invaso.
Ruolo determinante ebbe, nell'aggressione e distruzione del Sud, la massoneria italiana, europea, mondiale. Massoni erano Mazzini, Garibaldi, Cavour, Vittorio Emanuele 2°, Liborio Romano, il primo ministro inglese Lord Palmerston, i banchieri francesi Rothscild. La conquista del Sud diveniva un affare per tutti. All'Inghilterra veniva assicurato lo sfruttamento del prezioso zolfo siciliano e i commerci con l'Oriente dopo l'apertura del canale di Suez; alla Francia dei Rothscild, con l'incameramento dei soldi del Banco di Sicilia e di Napoli, si assicurava il saldo dei debiti fatti dal Regno piemontese per finanziare le sventurate guerre d'indipendenza; al Piemonte veniva assicurata l'Italia intera.
Con il denaro raccolto dalle logge massoniche inglesi e americane vennero corrotti ed acquistati ammiragli e comandanti della marina, generali e ufficiali dell'esercito borbonico, che fecero voltare da un'altra parte i soldati borbonici al passaggio (crociera, passeggiata) dei “mille” di Garibaldi. Il re borbone Francesco 2° purtroppo, per motivi umanitari, fuggì anche lui davanti ai garibaldini e all'esercito piemontese, abbandonando Napoli per asserragliarsi a Gaeta.
Dora Liguori sostiene che, anche a distanza di centocinquanta anni, la decisione presa da Francesco 2° di abbandonare Napoli lascia ancora perplessi; e si chiede se quella decisione fu davvero sua, o fu l'ennesimo mal consiglio di ministri che non vedevano l'ora di toglierselo di torno. Se il re a Napoli avesse tentato di resistere, il popolo, come nel 1799, si sarebbe schierato al suo fianco ed avrebbe contrastato Garibaldi e i Savoia. Ci sarebbero stati, dice ancora la Liguori, al massimo un migliaio di morti; ma, di contro, egli avrebbe salvato un regno e risparmiato il milione successivo di vittime. Ma purtroppo la storia non si scrive con i se.
I soldati semplici, quando si resero conto del tradimento dei loro comandanti, insorsero ferocemente, dimostrando il loro attaccamento alla corona dei Borbone, e combatterono valorosamente nelle disperate ed eroiche difese delle fortezze di Messina, Civitella del Tronto e Gaeta.
Cadute queste fortezze e ritiratosi il re Francesco 2° a Roma, i Savoia resero i meridionali servi in casa loro. Non fu mantenuta la promessa di dare le terre ai contadini. Anzi furono soppressi anche gli usi civici, che sotto i Borbone consentivano ai contadini di sfruttare le terre demaniali, quasi loro unica fonte di sopravvivenza. Altra iniziativa impopolare operata dai Savoia fu quella di rendere la leva militare obbligatoria; leva che con i Borbone era sempre stata volontaria.
Contadini, ex garibaldini e soldati borbonici, tutti abbandonati a se stessi, si trovarono insieme a combattere contro i Savoia divenuti i comuni avversari. I meridionali sperimentarono sulla loro pelle che si stava meglio prima e decisero di voler far ritornare i Borbone, che come loro erano stati brutalmente gettati fuori dalla loro terra. La rabbia era grande e si addivenne alla conclusione che piuttosto di vivere in quelle condizioni, era meglio scatenare l'inferno. Inferno – scrive la Liguori – nel quale non intendevano, però, andarci da soli, bensì in compagnia di quanti più piemontesi era possibile trascinare.
E i meridionali divennero tutti briganti. E il termine brigante assunse, per volontà popolare, un significato altamente positivo. Violenti erano i piemontesi, violenti divennero i briganti. La significativa differenza, tutt'altro che secondaria, che intercorreva, fra l'esercito piemontese e i briganti era che quest'ultimi stavano a casa loro e si battevano per difendere qualcosa che, per diritto di nascita, era di loro proprietà. Memmo 'O Chiavone, nella Valle del Liri, Giovanni Piccioni, nelle Marche, Carmine Crocco e Ninco Nanco, in Lucania, il Sergente Romano, in Puglia, furono alcuni capi, che insieme a tanti briganti e brigantesse, inflissero tante e gravi sconfitte all'esercito piemontese.
Alla fine vinsero i piemontesi per la loro stragrande e preponderante forza numerica di militari impiegati, per la loro ferocia ed inumanità fino al genocidio, per i lauti finanziamenti ottenuti dalla massoneria inglese ed americana, per il vergognoso uso del pentitismo e del tradimento, per le devastanti carestie ed epidemie che si abbatterono sul meridione.
Le ferite mortali inflitte dall'esercito piemontese al meridione, incancrenendosi, non si sono più rimarginate; e sono state la causa di un solco, spesso di odio, che divide ed allontana sempre più la gente del Sud da quella del Nord.
Rocco Biondi

Dora Liguori, Quell'“amara” Unità d'Italia, Fatti e misfatti di un'azione politica e militare poco conosciuta, anzi mistificata, che rese possibile ai Savoia la conquista del meridione d'Italia, Sibylla Editrice, Roma 2010, pp. 302, € 15,00

23 ottobre 2010

Dora Liguori ai Sabati Briganteschi



Sabato 30 ottobre 2010 - Ore 19,00
Sala Consiliare Comune di Villa Castelli (Brindisi) - Piazza Municipio

Nell'ambito dei “Sabati Briganteschi” (ultimo sabato di ogni mese), organizzati dall'Associazione “Settimana dei Briganti - l'altra storia”,
DORA LIGUORI, storica, scrittrice, musicista, presentando il suo libro, parlerà sul tema“Quell'"amara" Unità d'Italia e i briganti".

Dal 1860 ad oggi, una spessa coltre è stata fatta volutamente calare per coprire le azioni, tutt’altro che limpide, che comportarono la sofferta riunificazione nazionale. A propugnare questa unione furono movimenti fortemente idealistici, figli dell’illuminismo che, abilmente strumentalizzati, finirono col fare gli interessi di forti poteri internazionali, miranti a impadronirsi del ricco, e, strategicamente rilevante nel Mediterraneo, “Regno delle due Sicilie”, possessore anche del preziosissimo zolfo siciliano.
A fare il “gioco sporco” per tutti, fu chiamato il regno del Piemonte il quale, per problemi di sopravvivenza finanziaria, da tempo mirava a conquistare il Sud della penisola.
L’impresa, poi, assunse i contorni, non già della bella unione sognata dai liberali, ma di una feroce oppressione di un popolo avverso un altro. I Meridionali si opposero all'invasione piemontese. I briganti furono il braccio armata di questa ribellione. E fu... la guerra civile!
Tutto l’orrore che ne seguì va ascritto, soprattutto, alla crudeltà dei vertici militari sabaudi che, tra l’altro, incapaci, provocarono, con la strage nel Sud, anche la morte di tantissimi giovani del Nord, portati a morire negli aspri territori del salernitano, della Lucania, della Puglia, nonché Sicilia e Calabria. Di contro, per i meridionali, da parte dei Savoia, vi furono le deportazioni nel novarese: primi “lager”della storia.
Dopo decenni di falsi storici, riproporre la verità è un atto di giustizia, nonché il vero modo per celebrare, appunto, l’“Unita” italiana.

DORA LIGUORI, storica, scrittrice, musicista, dirige due giornali rivolti ai problemi dell’arte e degli artisti.
E’ autrice di libri storici quali: “Quell’‘amara’ Unità d’Italia” (Fatti e misfatti di un'azione politica e militare poco conosciuta, anzi mistificata, che rese possibile ai Savoia la conquista del meridione d'Italia), “Memento Domine” (La tragedia del Sud durante l’Unità d’Italia), “Sibylla, contessa di Conversano, duchessa di Normandia” (Una grande figura di donna nel Medioevo), “Storie di piccola gente” (Racconti).

14 ottobre 2010

Il brigante Chiavone, di Michele Ferri e Domenico Celestino



Il libro, pubblicato nel 1984, si inserisce nel filone delle microstorie che privilegiano le storie locali in un limitato arco di tempo. Vengono presentati gli avvenimenti della guerriglia filoborbonica alla frontiera pontificia negli anni 1860-1862. La figura del brigante Chiavone è tenuta quasi sullo sfondo della corale reazione all'invasione ed annessione piemontese del Regno delle Due Sicilie. Clero e contadini, la stragrande maggioranza del popolo meridionale quindi, si oppongono ai galantuomini borghesi che per salvaguardare i loro privilegi si sono schierati con i piemontesi, che con l'alibi dell'attuazione del sogno liberale dell'unità d'Italia sono venuti al Sud per impossessarsi degli appetibili beni del Regno delle Due Sicilie. I briganti sono il braccio armato di questa resistenza.
Attorno ai briganti si gioca una partita che vede un non indifferente movimento di capitali, gestiti dalla Centrale borbonica che si era formata nello Stato Pontificio, dove aveva trovato ospitalità l'ultimo re di Napoli Francesco 2°, e che aveva come quasi impossibile obiettivo il ritorno del Borbone a Napoli. Insieme ai briganti lottarono tanti legittimisti stranieri corsi in aiuto di Francesco 2° e della regina Maria Sofia. Ma mentre i briganti combattevano per un loro miglioramento sociale, non sempre chiare sono le finalità dei legittimisti.
Teatro della guerriglia delle bande armate di Chiavone sono la parte meridionale dello Stato Pontificio e i confinanti Terra di Lavoro e Abruzzo Ultra. I briganti agivano nel territorio dell'ex Regno delle Due Sicilie, con epicentro a Sora, ma per sfuggire ai piemontesi si rifugiavano nel Territorio Pontificio, dove l'esercito francese dimostrava grande acquiescenza. Le abbazie di Casamari e Trisulti ed il convento di Scifelli offrivano ospitalità ai briganti.
Luigi Alonzi, detto Chiavone, era nato a Sora il 19 giugno 1825 da una famiglia di contadini. Per i suoi servigi a favore del re Francesco 2° era stato nominato guardaboschi del distretto di Sora e della Valle Roveto. Dopo l'invasione piemontese si diede alla macchia e riuscì a formare una nutrita banda di briganti, che lottò contro gli invasori. Nel periodo di maggiore auge la banda Chiavone, nominato comandante in capo da Francesco 2°, era suddivisa in otto compagnie e comprendeva 20 ufficiali, un chirurgo, 59 sottoufficiali e caporali, 7 trombettieri e 343 soldati, per un totale di 430 uomini.
Il libro è quasi un diario degli avvenimenti succedutesi tra il giugno 1860 ed il giugno 1862. Tanti fatti e tanti uomini si avvicendano in un biennio tragico per il meridione d'Italia. Oltre e più che capi e comandanti lasciano la loro traccia persone comuni e normali. Si sussegue, come in un martirologio, una lunga sequela di briganti arrestati e fucilati. Darne conto in una recensione è molto difficile e quasi impossibile. Ci limiteremo quindi a qualche considerazione di carattere generale.
Riteniamo che gli autori, pur in una meritevolissima opera di ricca documentazione, non siano riusciti a superare diverse contraddizioni dovute alla mancanza di una chiara scelta di campo tra oppressi ed oppressori, tra briganti e piemontesi. Nel libro troviamo affermazioni quali: «l'infimo ceto meridionale tornò al triste brigantaggio», la reazione dei briganti fu uno «scomposto volontarismo di massa», «i contadini, strumentalizzati dai reazionari, predisposti dall'ignoranza, animati da rancori antiborghesi, si armarono per lottare ancora una volta in difesa del trono e dell'altare», «cominciava a montare, soprattutto tra i ceti campagnoli, l'adesione chiassosa alla causa borbonica», «il generale spagnolo Tristany rimase sconcertato soprattutto della minchioneria di re Francesco». Ma troviamo anche scritto: «Luigi Alonzi, un oscuro guardaboschi, entrò da protagonista nella vita travagliata di Sora e da brigante dei più famosi nella storia dell'Italia liberale», «il personaggio principale della nostra storia è Chiavone e ci sembra che la sua immagine, in base agli avvenimenti riferiti, risulti in qualche misura migliore di quella tramandata da una tradizione costituitasi su quanto scrissero i vincitori, i concorrenti, gli amici interessati; la taccia di crudele, incapace, vile e traditore ci sembra immeritata», «la vera forza del brigantaggio era quella popolare», «a Sora tutti gli strati sociali tennero per la reazione rappresentata da Montieri e da Chiavone», «le classi egemoni si sforzarono di cancellare nella coscienza storica collettiva il ricordo della guerra del brigantaggio; tuttavia il tentativo di rimozione fallì e quella che nei paesi meridionali era una confusa memoria divenne, nel secondo dopoguerra, una chiara consapevolezza. Negli ultimi tempi le pubblicazioni sul brigantaggio hanno assunto carattere di vera e propria analisi storica e forniscono al pubblico un efficace strumento per la comprensione di molti aspetti della società contemporanea».
Sembra che i due autori camminino su strade contrapposte e che non siano riusciti nemmeno a trovare una convergenza parallela, che in qualche modo dia un valore positivo alla loro ricerca sul brigantaggio.
Nel libro è stato dato troppo credito e spazio ad autori che il brigantaggio hanno sottovalutato e screditato: Jacopo Gelli, Alessandro Bianco di Saint Jorioz ed in qualche modo anche Ludwig Richard Zimmermann. Da quest'ultimo autore, che aveva combattuto a fianco di Chiavone, è tratta tutta la parte finale del libro, che narra dell'ultimo periodo di vita del brigante sorano. Il tedesco Zimmermann insieme al legittimista spagnolo Rafael Tristany processarono e fecero fucilare Chiavone il 28 giugno 1862 nella boscaglia di Valle dell'Inferno.
Ferri e Celestino riservano nel loro libro ampio spazio anche al brigante Domenico Coja, detto Centrillo, al filoborbonico vescovo di Sora Giuseppe Montieri, al filopiemontese sottoprefetto Francesco Homodei, al legittimista Theodule De Christen.
Franco Molfese, nella prefazione al libro, scriveva che soltanto negli ultimi decenni è stato possibile svelare la vastità, la durata e la violenza del cosiddetto «brigantaggio»; le dimensioni del fenomeno hanno smentito i giudizi tendenziosi e riduttivi di «manifestazione di criminalità comune», tanto in auge nella storiografia «scolastica» del brigantaggio; gli aspetti di un profondo e violento moto di classe sono emersi dalla constatazione dell'appoggio reale dato dalle vaste masse contadine alla lotta armata delle bande.
Rocco Biondi

Michele Ferri - Domenico Celestino, Il brigante Chiavone - Storia della guerriglia filoborbonica alla frontiera pontificia (1860-1862), Edizione Centro Studi Cominium, Casalvieri (FR) 1984, pp. 408

21 settembre 2010

Giuseppe Osvaldo Lucera ai Sabati Briganteschi

Sabato 25 settembre 2010 - Ore 19,00
Sala Consiliare Comune di Villa Castelli (Brindisi) - Piazza Municipio

Nell'ambito dei “Sabati Briganteschi” (ultimo sabato di ogni mese), organizzati dall'Associazione “Settimana dei Briganti - l'altra storia”,
GIUSEPPE OSVALDO LUCERA, studioso del Brigantaggio e del Controrisorgimento, presenta il suo libro “Giuseppe Schiavone - Brigante post unitario", edito da Biondi Editore.

GIUSEPPE OSVALDO LUCERA è nato a Biccari (Foggia) il 19 novembre 1947. Diplomato nel 1969. Ha lavorato nelle industrie alimentari e nella sanità privata. Cultore di storia risorgimentale. Ha pubblicato un saggio in quattro volumi sul fenomeno del brigantaggio: “Vicende di un’altra storia” ed un romanzo in due parti: “I due manutengoli”, editi dalle Edizioni Simple di Macerata.

Il 17 marzo 1861, nel Parlamento di Torino, qualcuno sottoscrisse un contratto, una specie di rogito notarile. Un contratto di compravendita con il quale si acquisivano i destini di tutti i meridionali, le terre dell’intero Meridione, le ricchezze di un pluricentenario Regno, contro il versamento di un corrispettivo fatto di povertà, razzismo, lombrosiane teorie di cromosomiche aberrazioni, di geni modificati a causa dell’impervia natura, delle tante colline, del sole e del cattivo cibo; un corrispettivo fatto di guerra civile, di stragi, di genocidio, di carceri, di tribunali di guerra, di bagni penali d’orribile concezione, di celle dislocate al disotto del livello del mare; di intere famiglie inseguite, fucilate e smembrate, di bambine condannate a pene detentive per aver compiuto il famigerato reato di essere figlie di briganti, quindi, conviventi con essi e quindi fiancheggiatrici; di impensabili leggi dell’emergenza, di incendi e distruzioni d’interi paesi, di fucilazioni sommarie, di fucilazioni camuffate da impossibili tentativi di fughe e di … di… ma chi più ne ha più ne metta, tanto l’elenco è pressoché inesauribile per quanto poté quella genìa scesa dalle brume del nord.

Giuseppe Schiavone era nato a Sant'Agata di Puglia (FG) il 19 dicembre 1838. Agì tra il 1861 e il 1864, principalmente in Capitanata, collaborando anche con Michele Caruso e Carmine Crocco. Amò Filomena Pennacchio. Fu fucilato a Melfi dai piemontesi il 29 novembre 1864.

La presentazione del libro di Giuseppe Osvaldo Lucera “Giuseppe Schiavone” si inserisce anche nella sesta edizione della “Festa dei lettori”, che reca come slogan: «... e io leggo!» e che si celebra in tutta Italia sabato 25 settembre.

Rocco Biondi
Presidente Associazione “Settimana dei Briganti - l'altra storia”

11 settembre 2010

Gramsci e i briganti

Ognuno è libero di inventarsi e difendersi la storia che vuole. Ma non può pretendere che tutti credano che quella sia la Storia vera. Men che mai poi è opportuno attribuirsi titoli culturali che non si hanno.
Maurizio Nocera, sul giornale online Spigolature Salentine, parlando (o meglio sparlando) del brigantaggio meridionale postunitario scrive: «Questo dato di fatto però non ci deve indurre a interpretare il fenomeno del brigantaggio come un evento progressivo, perché questo non corrisponde a verità storica», «I briganti oggettivamente combatterono una battaglia sotto un vessillo sbagliato che, in quel momento, rappresentava il peggio della reazione politica in Europa», «E la prima cosa che mi viene in mente è la pagina risorgimentale, quella cioè che portò all’Unità d’Italia, per me una delle pagine più belle del popolo italiano che, sotto la bandiera rossa di Giuseppe Garibaldi, riuscì a riscattare, sia pure in un primo momento solo a livello d’identità nazionale, le genti del Sud».
Ma non è di queste affermazioni, che pur meriterebbero tante puntualizzazioni, voglio parlare; al brigantaggio, infatti, anche gli storici di regime attribuiscono positiva valenza sociale e politica, anche se poi non ne traggano le dovute conclusioni, come pure ormai si parla diffusamente di controrisorgimento.
Voglio invece fissare l'attenzione sulla seguente altra affermazione di Nocera: «Spesso i borbonici, quando parlano o scrivono di brigantaggio, richiamano una frase che Antonio Gramsci avrebbe scritto sul suo settimanale torinese “L’Ordine Nuovo” del 1920. È strano che costoro che citano Gramsci non diano mai le giuste indicazioni bibliografiche». La frase, che Nocera addirittura si rifiuta di riprendere perché a suo dire ciò significherebbe ancora una volta falsificare la verità storica, è la seguente: «lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e a fuoco l'Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono infamare col marchio di “briganti”».
Da premettere che questa frase di Gramsci è citata non solo dai borbonici, ma da tutti quelli che si interessano di brigantaggio. Ed io che pure l'ho citata non sono borbonico. Ma veniamo alle giuste indicazioni bibliografiche.
La surriportata frase di Gramsci è tratta da un articolo intitolato “Il lanzo ubriaco”, pubblicato sull'edizione piemontese dell'“Avanti!”, anno XXIV, n. 42, 18 febbraio 1920 (editoriale). L'articolo è stato raccolto nel volume di Antonio Gramsci: L'Ordine nuovo 1919-1920, a cura di Valentino Gerratana e Antonio A. Santucci, Einaudi, Torino 1987, pp. 420-424 (la citazione si trova a pag. 422). Gerratana e Santucci hanno inserito l'articolo (non firmato) in un libro di Gramsci accettandone l'attribuzione fatta a Gramsci da Platone-Togliatti nella prima edizione in volume degli articoli gramsciani de “L'Ordine Nuovo”, 1919-1920, Einaudi, Torino 1954, pp. 84-88 (la citazione è a pag. 86). Sono stati i curatori, sia dell'una che dell'altra edizione, che hanno deciso di raccogliere nel volume de “L'Ordine Nuovo” anche gli articoli che Gramsci, nello stesso periodo, pubblicava in qualità di redattore sull'edizione piemontese dell'“Avanti!”. E' questo il motivo per cui la frase viene correntemente citata come scritta da Gramsci nel settimanale “L'Ordine Nuovo” del 1920.
Ovviamente io mi fido più di Platone, di Togliatti, di Gerratana, di Santucci, che attribuiscono concordemente la frase a Gramsci, che non di Nocera che nega tale attribuzione. Nocera scrive di conoscere bene gli scritti di Gramsci su L'Ordine Nuovo e sostiene che Gramsci vi abbia scritto solo due editoriali. Anche qui mi fido degli esimi scrittori specialisti su Gramsci quando gli attribuiscono, sempre nel volume su L'Ordine Nuovo, ben 500 (cinquecento) pagine di scritti per un totale di 136 (centotrentasei) articoli.
Un'altra smentita merita Nocera a proposito della seguente sua affermazione, sempre sulla frase di Gramsci: «E poi, vi sembra possibile l’esistenza di tali affermazioni sul brigantaggio di Gramsci e storici come Franco Molfese o Aldo De Jaco o Giuseppe Calasso che non ne conoscessero l’esistenza?». Orbene, Aldo De Jaco nel suo libro “Il Brigantaggio Meridionale” (Editori Riuniti), a pag. 14, premettendo “– come scrisse Gramsci nel '20 –” cita tra virgolette la frase di cui stiamo discorrendo.
Nocera, ancora nei suoi articoli, si ripicca contro Valentino Romano, che a suo dire lo avrebbe accusato di essere uno storico unitario “cariatide di regime e salariato”. Ma qui deve essere Valentino Romano a dire la sua.
Infine credo che sarebbe cosa auspicabile approfondire ed esporre sistematicamente la posizione che Antonio Gramsci ebbe nei confronti del brigantaggio meridionale. Per noi meridionali e “briganti” potrebbero venir fuori piacevoli e positive sorprese.
Rocco Biondi

15 agosto 2010

Regione Sud

Anziché unire vogliono continuare a dividere. In Puglia alcuni vogliono creare la Regione Salento, mettendo insieme le province di Brindisi, Lecce, Taranto, separandosi da Bari e Foggia. Vogliono continuare a contare sempre meno. Il Nord ignora e sfrutta le Regioni del Sud, compresa la Puglia. Separati noi meridionali abbiamo poca o nessuna forza. Frazionarci ancora peggiora la situazione.
Io, insieme ad un numero sempre crescente di meridionali, credo invece che per il Meridione d'Italia sarebbe utile, forse necessario, accorparsi. E' l'ora di creare una macroregione. Dovrebbero farne parte (cito in ordine alfabetico): Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sicilia. In pratica sono le sette Regioni che costituivano il vecchio Regno delle Due Sicilie, invaso e annientato dai Piemontesi nel 1860.
Riaccorpare l'intero territorio del Regno non è sogno nostalgico del bel tempo che fu. Ma è risposta all'abbandono, operato della nordica Italia unita, di tutto il Sud. Una regione di 18.883.856 abitanti (il 33,13% di tutta l'Italia) farebbe sentire il suo peso.
Do per scontato che tante possono essere le resistenze alla nascita di questa unica macroregione. Scomparendo le attuali esistenti regioni, si perderebbero poteri, clientele, assessorati, consiglieri, apparati. La Sicilia perderebbe la sua “specialità”.
Ma tantissimi sarebbero i vantaggi di una gestione unitaria di tutto il Sud. A cominciare da una risposta più forte al contropotere criminale. Ma aumenterebbe anche la forza per poter chiede ai discendenti degli invasori piemontesi il saldo del conto per l'invasione subita, con conseguenti furti e danni, perpetuantisi anche nei successivi centocinquant'anni.
Una simile macroregione del Sud potrebbe ancora avere interesse a rimanere nell'Italia unita, perché cambierebbero i rapporti di forza. Non saremmo più il fanalino di coda dell'economia italiana, ma potremmo diventarne i propulsori.
Ma mal che vada non sarebbe un danno per il meridione diventare autonomo. Saremmo - scrive Pino Aprile nel suo “Terroni” - l'ultimo paese dell'Europa unita. Ma, da soli, avremmo la possibilità di trasformare i nostri ritardi in occasione di sviluppo. Non dovendo più “far media” con il reddito del Nord, diverremmo immediatamente il paese europeo ad avere maggiore diritto agli incentivi economici per lo sviluppo; con un impagabile vantaggio aggiuntivo: che i soldi dell'Europa per il Sud, resterebbero al Sud.
Quale nome dovrebbe assumere questa macroregione del Sud? Chiamandola “Regione Due Sicilie” ci ricollegheremmo con la nostra storia e compenseremmo in parte alla Sicilia la rinuncia alla sua specialità. Ma affascinante sarebbe anche “Regione Terronia”. Come pure potrebbe andare bene “Regione Napolitania”. Ma si potrebbe anche aprire una gara-concorso per dare sfogo alla nostra fantasia meridionale.

25 luglio 2010

I Savoia e il Massacro del Sud, di Antonio Ciano

Al Piemonte non interessava per niente l'Unità d'Italia. Al Piemonte interessava la conquista delle ricchezze del Sud, delle sue riserve auree, delle sue fabbriche. Per avvalorare questa affermazione Ciano apre il suo libro con delle tabelle statistiche. Nel 1860, anno dell'annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte, le monete di tutti gli Stati italiani ammontavano complessivamente a 668,4 milioni, dei quali ben 443,2 (66,31% del totale) appartenevano al Regno delle Due Sicilie; il Regno di Sardegna/Piemonte ne possedeva solo 27,0 milioni. Dal primo censimento del Regno d'Italia, tenutosi nel 1861, risulta che nelle province napoletane e siciliane la popolazione occupata nell'industria era 1.595.359, nell'agricoltura 3.133.261, nel commercio 272.556, mentre in Piemonte, Liguria e Sardegna (messi insieme) era rispettivamente di 376.955 (industria), 1.501.106 (agricoltura), 119.122 unità (commercio). La città più popolosa era Napoli con 447.065 abitanti, Torino di abitanti ne aveva 204.715, Roma 194.587. Nella Conferenza Internazionale di Parigi del 1856 fu assegnato al Regno delle Due Sicilie il premio di terzo paese del mondo, dopo l'Inghilterra e la Francia, per sviluppo industriale.
Oggi - scrive Ciano nel suo libro - abbiamo due Italie, una del Nord ed una del Sud, una ricca ed una povera. Rispetto al 1860 si sono invertiti i ruoli. Il Nord ha rubato tutto al Sud, che fu invaso militarmente e colonizzato. Ora è tempo di cambiare. Il Sud ha bisogno di liberarsi del colonialismo instaurato dalla borghesia del Nord; ha bisogno di liberarsi del sistema fiscale impostogli dal Piemonte nell'Ottocento; ha bisogno della sua piena autonomia per far sprigionare la fantasia imprenditoriale dei suoi abitanti. Ma il Sud prima di separarsi dovrà chiedere al Nord il conto dei danni subiti, che sono tanti.
Il libro di Ciano, scritto nel 1996, conserva ancora oggi la sua validità e la sua freschezza d'invettiva contro i soprusi compiuti dai Piemontesi per imporre con la forza agli abitanti del Sud una unità non voluta e non sentita.
Il 1861 è un anno che ogni Meridionale deve ricordare, non per la pseudo unità imposta con la forza, ma perché quell'anno i Savoia iniziarono il massacro del Sud. Cannoni contro città indifese; baionette conficcate nelle carni di giovani, preti, contadini; donne violentate e sgozzate; vecchi e bambini trucidati. Case e chiese saccheggiate, monumenti abbattuti, libri bruciati, scuole chiuse.
La fucilazione di massa divenne pratica quotidiana. Dal 1861 al 1871, scrive Ciano, un milione di contadini furono abbattuti; anche se i governi piemontesi su questo massacro non fornivano dati, perché nessuno doveva sapere.
Il brigantaggio fu un grande movimento rivoluzionario e di massa, che lottò contro l'invasione piemontese. I briganti furono partigiani che difendevano la loro patria, la loro terra, il loro Re Borbone e la Chiesa cattolica. Dovevano essere annientati perché si opponevano alle mire colonialistiche dei piemontesi.
Generali ed ufficiali piemontesi furono dei criminali di guerra, che praticarono lo sterminio di massa. I contadini dovevano essere fucilati; imprigionarli non era conveniente, perché, se in galera, lo Stato doveva provvedere al loro sostentamento.
Il Sud sta pagando ancora lacrime e sangue. L'ultimo Re Francesco II, partendo da Gaeta il 14 febbraio 1861, disse: “Il Nord non lascerà ai meridionali neppure gli occhi per piangere”.
Nel 1861 il Sud è stato invaso dalle truppe piemontesi, ed oggi, anche se in modo diverso, continua ancora ad essere invaso. Scrive Ciano: «Una volta i generali savoiardi fucilavano i nostri contadini, oggi, massacrano le nostre menti con le televisioni i cui proprietari sono i liberal massoni di ieri. Non è cambiato niente».
E' giunto il momento - scrive ancora Ciano - di dire basta e di chiamare a raccolta tutti i meridionali sensibili e orgogliosi. E' il momento di compattarci, di rivalutare la nostra storia, di processare l'invasione piemontese del 1860-61, di processare coloro che fucilarono, imprigionarono, deportarono un milione di contadini del Sud etichettandoli briganti.
Più amara della sconfitta è stata la falsa storia raccontata dai prezzolati sabaudi, scrive Lucio Barone nella prefazione del libro. Tutto ciò che apparteneva al Piemonte veniva glorificato e tutto ciò che era borbonico veniva additato al pubblico disprezzo.
Ispiratrice e suggeritrice della politica italiana di quegli anni fu la massoneria inglese, che aveva come obiettivo la costituzione di un nuovo ordine mondiale che non prevedeva più la presenza della Chiesa cattolica. Per l'Italia questo compito fu assegnato al Piemonte e a casa Savoia. Alla massoneria, infatti, appartenevano i cosiddetti padri della patria che diedero vita alla cosiddetta unità d'Italia: Giuseppe Mazzini, Camillo Benso di Cavour, Giuseppe Garibaldi.
“Nord ladro” è il titolo del capitolo che introduce la rassegna delle grandi opere industriali presenti nel Sud prima dell'unificazione al Piemonte.
La Campania nel 1860 era la regione più industrializzata del mondo. Il Reale Opificio meccanico e politecnico di Pietrarsa, con i suoi mille operai specializzati, era il fiore all'occhiello dell'industria partenopea; lì si producevano, con tecnologie avanzate, treni e locomotive. In Castelnuovo operava la Real fonderia con 500 operai, a Torre Annunziata la Real Manufattura delle armi con 500 operai, a Castellamare il Cantiere Navale con 2.000 operai.
A Mongiana in Calabria erano presenti le Ferriere, con 1.500 operai e stabilimenti a Pazzano e Bigonci; quattro altiforni producevano 21.000 quintali di ghisa. Sempre in Calabria, nello Stabilimento metalmeccanico di Cardinale, 200 operai specializzati producevano 2.000 quintali di ferro.
Altri centri siderurgici e meccanici erano sorti a Fuscaldo (Calabria), Picinisco (Terra di Lavoro), Picciano (Abruzzo), Atripalda (Avellino). In Puglia, a Lecce, Foggia, Spinazzola, vi erano officine che producevano macchine agricole.
Ma quasi in ogni paese del Sud nacquero piccole industrie, che costituirono il nerbo dell'economia del Regno delle Due Sicilie. Di notevole importanza erano le industrie per la lavorazione del cuoio e per la produzione di colori, della pasta alimentare, delle maioliche, di vetri, cristalli, cappelli, acidi, cera, corallo, metalli preziosi, stoviglie, saponi, mobili, strumenti musicali.
Nel 1860 - scrive Ciano - i settentrionali scannarono il Sud. Oggi, che non c'è più niente da scannare, paghi chi non ha mai pagato, paghi il Nord che ha sempre rubato. Il Sud ha pagato un prezzo enorme alla causa unitaria: un milione di morti, tra fucilati, incarcerati, impazziti, deportati; 20 milioni di emigranti le cui rimesse sono state dilapidate dal Nord; tutti i risparmi dei Meridionali rapinati dal Nord.
E i pennivendoli di regime continuano a scrivere libri di storia menzogneri, sperando di poter continuare a mettere un velo sull'intelligenza umana, di voler continuare a nascondere le miserie del Nord, gli eccidi perpetrati dagli invasori piemontesi, le prepotenze dei liberal massoni di ieri e di oggi; e soprattutto vogliono farci dimenticare che il Sud era ricco e che il Nord era pezzente.
La parte centrale del libro è dedicata alla descrizione dei massacri operati dai piemontesi nei paesi di Pontelandolfo e Casalduni, due paesi oggi in provincia di Benevento, distanti fra loro circa 5 chilometri. Nel 1861 il primo aveva 5 mila abitanti ed il secondo 3 mila; oggi il numero degli abitanti sia nell'uno che nell'altro paese è dimezzato.
Come in un diario vengono annotati e commentati i tragici avvenimenti che portarono nell'agosto del 1861 alla distruzione dei due paesi.
Per capire con quale spirito i piemontesi erano venuti nel Meridione, basta leggere il contenuto di un bando che un capitano dei bersaglieri piemontesi aveva fatto affiggere per le vie di un paese. Eccolo: «1) Chiunque tratterà o alloggerà briganti sarà fucilato. 2) Chiunque darà segno di tollerare o favorire il più piccolo tentativo di reazione sarà fucilato. 3) Chiunque verrà incontrato per le vie interne o per le campagne con provvigioni alimentari superiori ai propri bisogni, o con munizioni da fuoco per ingiustificato uso, sarà fucilato. 4) Chiunque, avendo notizie dei movimenti delle bande non sarà sollecito di avvisare il sottoscritto, verrà considerato nanutengolo o come tale fucilato». I piemontesi vennero ad imporre la loro inciviltà con i fucili.
E i meridionali si opposero. Preferirono la macchia al nuovo padrone piemontese, preferirono gli stenti, i sacrifici, la morte.
Pontelandolfo, Casalduni, Campolattaro insorsero, abbatterono le insegne savoiarde ed issarono nuovamente le bandiere borboniche. In quei giorni caldi di agosto, il Sud era quasi libero dal gioco piemontese. Le truppe sabaude venivano regolarmente battute dai partigiani-briganti. I popoli meridionali - scrive ancora Ciano - sono sempre stati civili, non hanno mai invaso territori altrui e sono diventati belve quando hanno visto insidiate le loro donne e la loro libertà.
Il generale piemontese Cialdini, da Napoli, diede ordini precisi di stroncare col sangue qualsiasi accenno o fermento di ribellione. Una compagnia, composta da quaranta bersaglieri e quattro carabinieri, fu mandata a ristabilire l'ordine piemontese a Pontelandolfo. Anche per l'inesperienza del loro comandante Bracci, furono tutti fucilati. In un sommario processo furono giudicati colpevoli per aver invaso un regno pacifico senza dichiarazione di guerra e per aver fucilato migliaia di contadini e di giovani renitenti alla leva piemontese. Erano le 22,30 dell'11 agosto 1861.
La rappresaglia piemontese scattò rabbiosa. Un generale piemontese sentenziò: «Per ogni soldato ucciso moriranno cento cafoni». Una prima colonna di piemontesi, composta da 900 bersaglieri, si diresse verso Pontelandolfo, un'altra colonna, composta da 400 uomini, si diresse verso Casalduni. Era l'alba del 14 agosto 1861. E cominciò la mattanza.
Spararono contro vecchi, donne e bambini, sorpresi nel sonno. Diedero fuoco a tutte le case. I paesi divennero un immenso rogo. Uccisioni, stupri, fucilate, grida, urla, saccheggi. Il massacro durò l'intera giornata.
Non si è mai saputo quanti furono i morti di Pontelandolfo, di Casalduni e degli altri paesi vicini. Certamente furono migliaia.
E così i piemontesi fecero l'unità d'Italia.
Rocco Biondi

Antonio Ciano, I Savoia e il Massacro del Sud, Grandmelò, Roma, 2a Ediz. Ottobre 1996, pp. 256

10 luglio 2010

Giuseppe Schiavone - Brigante post unitario

Il brigante post unitario Giuseppe Schiavone, da Franco Molfese definito «ardito e abile, batté ripetutamente truppe e guardie nazionali», nacque a Sant’Agata di Puglia (nell’attuale provincia di Foggia) il 19 dicembre 1838. Agì tra il 1861 e il 1864, collaborando anche con Michele Caruso e Carmine Crocco. Fu fucilato a Melfi dai piemontesi il 29 novembre 1864. Aveva solo 26 anni.
Non troviamo parole migliori per qualificare Giuseppe Schiavone che quelle di Giuseppe Osvaldo Lucera: «Nella realtà Schiavone è stato un insorgente diverso rispetto a quelli che apparvero, subito dopo l’Unità, nel nostro Meridione d’Italia. Questa diversità consiste in un diverso modo d’interpretare il suo ruolo e di condurre la sua azione. Questa sua peculiarità lo ha dimostrato con atti ed atteggiamenti che hanno quasi tutti un forte contenuto umanitario misto ad una specie di solidarietà con la vittima, non comune e per niente diffusa in quel mondo; quasi un comportamento con evidenti connotati francescani nei confronti dei suoi stessi avversari. Non è entrato nell’Olimpo dei capibanda più rappresentativi del periodo postunitario perché non gli riuscì mai di raggiungere l’intuito militare, misto al disprezzo per il nemico, di un Caruso o il militarismo acceso e non scalfibile di un sergente Romano, come non riuscì mai a sprigionare una carica politica e carismatica che invece riuscì a possedere un personaggio come l’avvocato Tardìo, né tanto meno fu un trascinatore di uomini come invece seppe fare Crocco, nella sua Lucania. Ma pur rimanendo alle falde del monte Olimpo, oppure ad oltre metà strada dalla vetta, Schiavone si è comunque distinto non solo per le sue qualità d’animo di brigante buono, riconosciute anche dall’immaginario collettivo che lo colloca tra i migliori interpreti di quella favolosa epopea, ma quanto per la purezza rivoluzionaria, o meglio per essere stato un fedele interprete del ribellismo contadino di indubbia efficacia».
Noi crediamo che l’opera di Lucera su Giuseppe Schiavone contribuirà a far ascendere questo brigante pugliese nell’Olimpo dei protagonisti del brigantaggio post unitario. Come merita.
Schiavone entrò nell’esercito borbonico come militare di leva nell’anno 1859. All’arrivo di Garibaldi, nel 1860, il comandante del suo reggimento si consegnò al Nizzardo senza sparare un colpo di fucile. Schiavone, nel frattempo diventato sergente, rimase consegnato in caserma fino alla caduta di Gaeta nelle mani dei piemontesi. Disciolto l’esercito borbonico, fu congedato e costretto a tornare a casa. Senz’arte né parte. Decise allora, come tanti altri, di darsi alla macchia, anche per non rispondere alla leva obbligatoria voluta dai piemontesi.
La banda di Schiavone aveva un numero di componenti che variava tra le 40 e le 50 unità, tutte a cavallo. Ne facevano parte ex soldati, contadini, ecclesiastici, perseguitati dalla giustizia, fuggiaschi e molte donne. Unito ad altre bande riuscì a comandare fino a 250 uomini armati, tutti a cavallo.
Quando la Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul Brigantaggio scese in Puglia, alla fine del gennaio 1863, Giuseppe Schiavone si mise ad osservare, dall’altura di un colle, la lunga colonna di soldati che l’accompagnavano. Scrive Lucera: «I commissari avevano soltanto sentito parlare di briganti, ma non ancora li avevano incontrati. L’unico a farsi vedere sui colli della sua Puglia fu proprio il brigante di Sant’Agata, tutto agghindato a festa per l’occasione».
Giuseppe Schiavone amò tante donne, ma quelle che segnarono la sua vita furono Rosa Giuliani e Filomena Pennacchio. La Giuliani lo consegnò ai boia piemontesi quando seppe che Filomena aspettava un figlio da Schiavone.
Prima di essere fucilato, Giuseppe Schiavone lanciò un grido disperato: «Popolo! Tu solo puoi ancora salvarmi, per te ho sempre combattuto!». Ed il popolo, perpetuandone la memoria fino a noi, lo ha salvato dalla morte.

Rocco Biondi
(Dalla mia prefazione al libro di Giuseppe Osvaldo Lucera: Giuseppe Schiavone - Brigante post unitario)

6 luglio 2010

Briganti meridionali

La storia del brigantaggio meridionale post unitario continua ad offrire a storici e ricercatori un vasto campo per approfondimenti e nuove scoperte. Gli archivi storici, che pur con riserva vengono messi a disposizione degli studiosi, svelano fatti ed avvenimenti che gli storici ufficiali e di regime hanno scientemente voluto ignorare e coprire.
L’aprioristica scelta di giustificare e convalidare comunque l’intervento piemontese nel Meridione d’Italia viene con progressivo e sempre maggiore vigore contestata sia da storici accademici che irregolari.
Cavour, Garibaldi ed altri personaggi, che la prosopopea risorgimentale ha voluto mitizzare, vengono declassati e valutati per il reale contributo che hanno fornito a quella che ormai molti chiamano la malaunità d’Italia.
Quella parte di storia italiana che inizia dal 1860 si arricchisce di nuovi personaggi e nuovi protagonisti che se avessero avuto il sopravvento avrebbero evitato a noi meridionali tanti lutti e tante sventure che durano fino ai giorni nostri.
Giuseppe Osvaldo Lucera ha sviluppato questi temi in quattro ponderosi volumi intitolati Vicende di un’altra storia. In essi ha affrontato le varie questioni attinenti all’Italia risorgimentale e alla volontà espansionistica savoiarda, dandone una lettura diversa da quella di regime. Mazzini, Cavour, Garibaldi vengono qualificati come “cattivi maestri”. La spedizione dei Mille viene descritta per quello che veramente è stata: storia di tradimenti, corruzioni, truffe, frodi, inganni, soprusi.
Nuovi personaggi irrompono legittimamente sulla scena storica. Sono la stragrande maggioranza degli abitanti che nel 1860 vivevano nel Regno delle Due Sicilie, aggredito, invaso ed annientato senza alcuna dichiarazione di guerra. Per la maggior parte erano contadini.
Essi non vennero chiamati ad esprimere la loro opinione nel plebiscito di adesione al Regno del Piemonte. In quel plebiscito-truffa votarono solamente i “galantuomini”.
Quasi tutti gli abitanti del Sud si opposero e si ribellarono. Il braccio armato di questa resistenza ai sardo-piemontesi furono i briganti, che per noi hanno solo ed esclusivamente una connotazione positiva. Erano insorgenti, resistenti, giustizieri, guerriglieri e non delinquenti.
Il brigantaggio fu un vero e proprio fenomeno di sollevazione di popolo, con aspetti fortemente sociali e politici.
Moltissime furono le bande di briganti che operarono in tutte le regioni del Sud d’Italia.
In Basilicata agirono Carmine Crocco Donatelli, Giuseppe Nicola Summa (Ninco-Nanco), Michele Volonnino, Donato Tortora, Caporal Teodoro Gioseffi e molti altri.
In Puglia operarono il sergente Pasquale Romano, Cosimo Mazzeo (Pizzichicchio), Giuseppe Nicola La Veneziana, Antonio Lo Caso (Il capraro), Riccardo Colasuonno (Ciucciarello), Francesco Monaco, Giuseppe Valente (Nenna-Nenna), Michele Caruso, Angelo Maria Villani (lo Zambro).
Altri importanti briganti meridionali post unitari furono Luigi Alonzi (Chiavone), Giuseppe Tardìo, Francesco Guerra, i fratelli Cipriano e Giona La Gala, Agostino Sacchitiello, Gaetano Manzo, Antonio Cozzolino (Pilone) e tanti altri.
Franco Molfese nella sua fondamentale Storia del Brigantaggio dopo l’Unità individua ben 388 bande, dalle piccole, composte di pochi individui (5-15), fino alle grandi, che raggiunsero e superarono talvolta i 100 uomini, con punte fino a 300-400 componenti.
Sul teatro di guerra della resistenza meridionale antipiemontese, a fianco dei briganti, entrarono in scena anche molti stranieri (quasi tutti ufficiali di eserciti vari): José Borges, Alfredo de Trazegnies, Rafael Tristany, Edwin Kalkreuth, Emile de Christen, Ludwig Richard Zimmermann e altri.

Rocco Biondi
(Dalla mia prefazione al libro di Giuseppe Osvaldo Lucera: Giuseppe Schiavone - Brigante post unitario)

15 giugno 2010

Pino Aprile e Antonio Ciano ai Sabati Briganteschi

Sabato 26 giugno 2010 - Ore 19,00
Sala Consiliare Comune di Villa Castelli (Brindisi) - Piazza Municipio

Nell'ambito dei “Sabati Briganteschi” (ultimo sabato di ogni mese), organizzati dall'Associazione “Settimana dei Briganti - l'altra storia”,
PINO APRILE, Scrittore e Giornalista, presenta il suo libro edito da Piemme "Terroni" - Quello che gli italiani venuti dal Nord ci fecero fu spaventoso. I briganti reagirono.
ANTONIO CIANO, Segretario nazionale del “Partito del Sud”, parlerà sul tema "Le stragi fatte dai Savoia contro il Sud".

Pino Aprile è nato a Gioia del Colle (Bari), Giornalista e scrittore, è stato vicedirettore di Oggi e direttore di Gente. Per la Tv ha lavorato con Sergio Zavoli all’inchiesta a puntate “Viaggio nel Sud” e al settimanale di approfondimento del Tg1 “Tv7”. Dopo le dimissioni da Gente, si è dedicato alla sua “grande passione”, la vela. Ha diretto il mensile Fare Vela e scritto libri di mare e vela.

Il recente libro di Pino Aprile “Terroni” sta ottenendo un grandissimo successo editoriale. E’ un libro di guerriglia culturale in difesa del Sud.
I piemontesi, quando centocinquant'anni fa invasero il nostro Meridione, fecero terra bruciata (in alcuni casi letteralmente) di tutto ciò che di buono avevamo. Saccheggiarono le nostre città, stuprarono le nostre donne, rasero al suolo e bruciarono tanti paesi, praticarono la tortura più spietata, fucilarono tanti contadini senza processo e senza condanna, incarcerarono donne e bambini, aprirono al Nord campi di concentramento e sterminio dove tormentarono e fecero morire tanti italiani del Sud squagliandoli poi nella calce viva; quelli del Nord s'inventarono leggi speciali per annientare noi meridionali, venne depredato tutto l'oro del Regno delle Due Sicilie, vennero trafugate le opere d'arte dei ricolmi nostri musei.
L'impoverimento del Meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza, ma la ragione dell'Unità d'Italia.
I nostri padri briganti tentarono di reagire a questi immani soprusi e in alcuni momenti sembrò che potessero avere il sopravvento, ma così non fu. I piemontesi schierarono contro di noi nel Sud i due terzi dell'intero esercito italiano. E fu una carneficina.
Ma la storia ufficiale ignora queste verità. I libri di storia che circolano nelle scuole di ogni ordine e grado tacciono. I documenti che ancora non sono stati distrutti vengono nascosti. I meridionali, man mano che ci si allontanava dai tempi in cui quei fatti accaddero, dimenticavano e rimuovevano.
Qualcosa però sta cambiando negli ultimi anni. Vengono fatti tantissimi convegni dove si dibatte del Regno delle Due Sicilie, del Brigantaggio, degli eccidi patiti, della storia dimenticata.
Le famiglie meridionali si sentono onorate se scoprono di aver avuto fra i loro antenati un brigante. Il termine “brigante” comincia ad assumere una connotazione positiva, come deve essere.

Antonio Ciano è autore de "I savoia e il massacro del Sud", " Le stragi e gli eccidi dei Savoia", "Per il sangue di Tata" e, assieme ad altri autori, di "Briganti& Partigiani". E' segretario nazionale del “Partito del Sud”. E' assessore a Gaeta, città-simbolo della resistenza all'invasione piemontese, eletto nella lista del “Partito del Sud”.

Antonio Ciano parlerà dei massacri commessi dai Savoia contro il Sud: Casalduni, Pontelandolfo, Gaeta, Fenestrelle, delle stragi e degli eccidi compiuti durante il loro regno. Non solo quelli commessi nel Sud, ma anche nel Nord, in Jugoslavia, in Libia, in Etiopia. Parlerà della questione Meridionale, di quella Romana e di come il Sud deve affrontare politicamente tali questioni.

Rocco Biondi
Presidente Associazione “Settimana dei Briganti - l'altra storia”

26 maggio 2010

Giuseppe Pennacchia ai Sabati Briganteschi

Sabato 29 maggio 2010 - ore 19,00
Biblioteca Scolastica “Giovanni Neglia” - Piazza Ostillio – Villa Castelli (Brindisi)

Nell'ambito dei “Sabati Briganteschi” (ultimo sabato di ogni mese), organizzati dall'Associazione “Settimana dei Briganti - l'altra storia”, Giuseppe Pennacchia, Storico del Brigantaggio e Docente di Igiene Ambientale presso l’Università La Sapienza di Roma, terrà una conferenza sul tema: “Flashback sui briganti: vendicatori giustizieri guerriglieri”.

Una storia del brigantaggio può essere delineata sin dagli albori dell’umanità, quando nel consesso sociale cominciarono a differenziarsi ruoli e comportamenti, il cui giudizio, non fermato alla sola natura etica del ruolo, va approfondito in termini di effettivo contributo allo sviluppo della nostra storia, che spesso coincide con quella dei vinti. Lo stesso immaginario mitologico consolida questa figura, ponendola nel panteon divino, con qualità e missioni ben precise, a dimostrazione di quanto sia tenuta in considerazione la sua attività. Solo attraverso l’esame degli aspetti sociologici, antropologici, e se vogliamo anche letterari del fenomeno, si può dipanare quel fil rouge che accompagna la storia ufficiale fino ai giorni nostri, con l’emergere di questi eroi della contro-storia, o, meglio, di questi contro-eroi della storia. Gli aspetti essenziali dell’uomo-brigante si imperniano su quattro punti essenziali: lo switch ovvero il mutamento radicale ed improvviso del tipo di vita, le ragioni dell’inizio dell’attività brigantesca, la natura della leadership, la morte. Ed è proprio la morte, attraverso un flashback della vita del brigante, che vede quel corpo pesantemente abbattuto sul terreno, rialzarsi riprendere vita, per far riflettere ed ammonire, per dare qualche speranza a chi più non ce l’ha. Il contro-eroe, tale solo perché inviso al potere, rimette in piedi tutti i nodi di una storia sommersa che nella sublimazione eroica combatte la supremazia del forte contro il debole. Occorre riconsegnare al fenomeno del brigantaggio la concretezza della versione popolare, senza perdere di vista, di fronte alla corposità del fatto, il senso ed il significato della Storia, ma solo per arricchirlo.

Giuseppe Pennacchia, pronipote di Michele Pezza di Itri, detto Fra’ Diavolo, nato ad Ascoli Piceno nel 1944, ingegnere, dirigente d’azienda, è autore di numerose pubblicazioni nel campo dell’ingegneria dell’ambiente e dell’energia, ed è docente di Igiene Ambientale presso la Facoltà di Medicina dell’Università La Sapienza di Roma. E’ stato Sindaco del comune di Giove (Terni).

Opere di Giuseppe Pennacchia:
L’Italia dei briganti, intr. Di Paolo De Nardis (Rendina, Roma, 1999)
La guerra lampo del Tevere del 1798 (Punto Uno, Terni, 2004)
Briganti in Terra di Santi, Storie e leggende di fuorilegge in Umbria (Punto Uno, Terni, 2005)
Fra’ Diavolo. Nascita di un mito (Odisseo, Itri, 2006)
Brigantaggio in Basilicata (Odisseo, Itri, 2007)
Storie di Briganti. Dieci sceneggiati sui briganti italiani: Musolino, Crocco, Ninco Nanco, Chiavone, Tiburzi, Mayno della Spinetta, Michelina De Cesare, Francesca La Gamba (la Capitanessa), Giovanni Tolu, il Passatore (Produzione RAI International per il programma Racconto Italiano, 2009).

Sin dal mattino del 29 maggio 2010, presso i locali della Scuola Elementare in Piazza Ostillio, sarà allestita una mostra iconografica (incisioni, acqueforti, stampe) sul tema “Briganti & Brigantaggio tra '800 e '900”.

Rocco Biondi
Presidente Associazione “Settimana dei Briganti - l'altra storia”