30 settembre 2012

Macroregioni: a noi interessa quella del Sud


Prima di Formigoni l'avevamo detto tante volte noi. In Italia 20 regioni sono troppe, basterebbe e sarebbe meglio che fossero solo 3: Sud, Centro, Nord. E non per le ragioni avanzate da Formigoni. Noi partiamo dal Sud e pensiamo a valorizzare il Sud. Quelli del Nord dicono che noi del Sud siamo la loro palla al piede. Bene, accettiamo la sfida. Vogliamo vedere a chi venderebbero i loro prodotti, se noi del Sud consumassimo solo prodotti del Sud. Per 151 anni ci hanno considerato loro colonia. Sarebbe ora di dire basta. Loro si consumino i loro prodotti, noi ci consumiamo i nostri.
Le nostre potenzialità sono alte. Il progresso delle esportazioni all'estero è molto più rapido da noi che da loro. Lo confermano i dati Istat degli ultimi due anni.
A noi, che siamo stati ignorati e insultati per 151 anni, dovrebbe interessare poco di salvare l'Italia, anche se facendo crescere il Sud contribuiremmo automaticamente a far crescere l 'Italia tutta. Daremmo una bella lezione ai leghisti, che fondano il loro successo sugli insulti a noi meridionali.
Della macroregione del Sud dovrebbe far parte l'intero territorio dello storico ex Regno delle Due Sicilie e comprendere quindi Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, parte dell'odierno Lazio meridionale ed orientale. 20milioni di abitanti farebbero sentire il loro peso.
La nascita di un'unica grande Regione meridionale servirebbe a riparare i danni che tutto il Sud ha subito dal 1860 ad oggi. Durante i 151 anni dell'Unità al Sud è stato tolto quello che aveva anziché essere dato il dovuto. Le casse delle Banche meridionali sono state svuotate, con l'emigrazione sono state tolte braccia e intelligenze.
Con le macroregioni verrebbero abbattuti i costi della politica e svecchiato l'attuale sistema istituzionale e amministrativo. Scomparendo le attuali regioni, si perderebbero poteri, clientele, assessorati, consiglieri. Calerebbero le spese improduttive degli apparati statali.
Oggi nel Sud si contano ben sette regioni, che moltiplicano per sette i quadri e gli organici per competenze uniformi, senza reali ed indispensabili compiti operativi.
Una grande “Regione delle due Sicilie” sarebbe la regione sud-europea capace di diventare la cerniera tra la vecchia Europa e i nuovi mondi e mercati emergenti.
Nell'unica grande Regione meridionale la scuola dell'obbligo potrebbe liberamente impegnarsi a far scoprire alle nuove generazioni le proprie radici, riproponendo la propria storia, eliminando le falsificazioni e i silenzi che una agiografica versione unitaria ha imposto.
La grande e unica Regione meridionale è disegnata nell'ambito dell'unità della Repubblica italiana. «Tuttavia nessuno si inganni - scriveva il meridionalista Pasquale Calvario - nel tenere, per debolezza, l'aspirazione del Sud ad una vera unità, cioè a rinfrancarsi delle delusioni patite. Nessuno dimentichi che la storia ci mette di fronte all'alternativa che si esprime nel provvedersi di "estremi rimedi", a fronte di "mali estremi"». Potrebbero far capolino la secessione e l'indipendenza.

26 settembre 2012

La fine dei Vinti, di Fiore Marro


Il romanzo tratta del processo che si tenne davanti alla Corte d'Assise di Santamaria Capuavetere (Caserta), dal 24 febbraio al 13 marzo 1864, contro i fratelli Cipriano e Giona La Gala, Domenico Papa e Giovanni D'Avanzo. I reati che vengono loro addebitati si riferiscono a fatti avvenuti nel 1861.
Il 1861 è un anno in cui in tutto il Mezzogiorno d'Italia è in atto una grande ribellione contro l'invasione operata dai Savoia piemontesi nel Regno delle Due Sicilie. Molteplici erano le bande brigantesche in azione: in Basilicata quella di Carmine Crocco, nelle Puglie quella di Pasquale Domenico Romano, in Terra di Lavoro quella di Luigi Alonzi. Franco Molfese nella sua fondamentale "Storia del brigantaggio dopo l'Unità" individua ben 388 bande.
In questo grande sommovimento nell'ex Regno delle Due Sicilie rientrano le azioni dei fratelli Cipriano e Giona La Gala, nati a Nola, il primo nel 1834, il secondo due anni dopo. Nel 1855 i due fratelli erano stati condannati a 20 anni di carcere per un furto, durante il quale vi fu un morto. Nel 1860 i due fratelli La Gala fuggirono dal carcere di Castellamare e si diedero alla macchia diventando briganti. Cipriano formò una sua banda, che contò fino a 300 uomini.
Nel gennaio 1862 raggiunsero Roma, dove incontrarono il re in esilio Francesco II Borbone, che voleva mandarli a Marsiglia e a Barcellona per reclutare gente per una guerra di riconquista dell'ex Regno delle Due Sicilie. Si imbarcarono a questo fine sulla nave francese Aunis. Ma nel porto di Genova furono arrestati dai piemontesi. Ne nacque un incidente diplomatico, che si concluse con la restituzione dei La Gala ai francesi in un primo tempo e con l'estradizione poi dalla Francia all'Italia. Portati a Napoli per il processo, vennero condannati a morte. Condanna poi tramutata all'ergastolo.
La forma che assume il romanzo è quella diaristica, con anche una raccolta di corrispondenze giornalistiche per il giornale "L'Osservatore Romano". Autore del diario e delle corrispondenze è Paolino Amato, avvocato napoletano e corrispondente appunto dell'Osservatore Romano. Sono raccolti il racconto di nove giornate del diario e nove corrispondenze da Napoli.
La prima data del Diario di Paolino Amato è quella del 20 febbraio 1864. Vengono raccontati i preparativi della partenza da Roma. Cosa che poi prosegue nei tre giorni successivi fino all'arrivo a Napoli. Per capire lo spirito del romanzo leggiamone un brano: "Conoscere la versione del popolo m'intriga e confido possa essermi di aiuto per comprendere cos'è veramente accaduto a questa gente, cos'è che hanno reso "briganti" campagnoli tranquilli e pacifici, armato la mano di canonici e zappaterra, fatto di don Giovanni D'Avanzo un fuorilegge».
La prima corrispondenza da Napoli di Paolino Amato (che è la personificazione di Fiore Marro, l'autore del romanzo), per rendere conto del processo contro i quattro briganti dell'Aunis, è del 24 febbraio 1864. Viene interrogato il brigante Giovanni D'Avanzo. Viene fuori che i giudici hanno già deciso a priori la colpevolezza degli imputati.
Nel processo si narra anche di un presunto episodio di cannibalismo. Noi siamo certi che si tratta di una falsa accusa inventata dai piemontesi per screditare al massimo i briganti.
Il giornalista Amato sta dalla parte dei vinti ed è sicuro che prima o poi sarà fatta giustizia, si saprà la verità. «Ingiustizia è fatta», con queste parole inizia l'ultima corrispondenza.
Al titolo del romanzo a me piace dare un significato positivo. E' finito il tempo in cui i briganti e i meridionali debbono essere considerati dei vinti. I vinti non sono più vinti, stanno per diventare vincitori.
Rocco Biondi
 
Fiore Marro, La fine dei Vinti. Giovanni D'Avanzo: da gendarme a brigante, Società Editrice L'Aperia, Caserta 2011, pp. 64, € 10,00.

23 settembre 2012

Michelina Di Cesare, di Fulvio D'Amore


Delle 343 pagine del libro solo una ventina parlano della brigantessa Michelina Di Cesare. Il libro quindi non dà quello che il titolo promette. Sospetto quindi che si sia voluto usare un nome di richiamo per fini commerciali. In pratica si parla diffusamente del brigantaggio postunitario nel casertano e dintorni, con particolare riguardo alle bande di Francesco Guerra, Domenico Fuoco, Giacomo Ciccone, Alessandro Pace.
L'autore apre l'introduzione al libro con l'affermazione che Michelina Di Cesare è «una delle più celebri brigantesse meridionali che la storia postunitaria ricordi, soprattutto, per la sua nota fotografia divulgata ampiamente in molti libri e riviste». Per prima cosa ritengo che l'importanza della Di Cesare derivi dal suo operato e non dalla fotografia. E poi è ormai quasi certo che la fotografia, riportata anche nella copertina del libro, non sia di Michelina Di Cesare, bensì di una modella messa in posa dal fotografo nel suo atelier. Della stessa modella esiste un'altra foto (anche questa impropriamente attribuita alla Di Cesare) che la rappresenta armata di schioppo, pistola e pugnale, seduta su una roccia di cartapesta.
Michelina Di Cesare nacque il 28 ottobre 1841 a Caspoli, frazione di Mignano Monte Lungo, distretto di Sora, provincia di Terra di Lavoro, attualmente in Campania. Sposò il suo compaesano Rocco Zenga, che morì nel 1862. Successivamente, datasi alla macchia, entrò nella banda di Francesco Guerra divenendo la sua donna. Capeggiò diverse azioni brigantesche. Fu uccisa in combattimento (o fucilata subito dopo) il 30 agosto 1868. Il suo cadavere, denudato, venne fotografato.
Il libro di Fulvio D'Amore, che porta il titolo "Michelina Di Cesare guerrigliera per amore. Le gesta eroiche della brigantessa tra Campania, Lazio, Abruzzo e Molise (1862-1868)", è stato pubblicato da Controcorrente edizioni di Napoli nel luglio del 2012 e porta come prezzo di copertina € 20,00.

10 settembre 2012

L'assalto alla diligenza, di Gerardo Mazziotti


E' un libro pamphlet pubblicato nel luglio 2005, datato quindi ma che conserva nei temi trattati una sua forte attualità. Mazziotti, calabrese trapiantato a Napoli, sferra uno spietato attacco ai professionisti della politica, usata per sistemarsi per la vita.
In Italia abbiamo una elefantiaca, inutile e costosissima struttura politico-amministrativa: al Governo nazionale un centinaio fra ministri, sottosegretari e vice ministri; 630 deputati, 315 senatori, 5 senatori a vita; 20 regioni, con relativi governatori, 215 Assessori e 1036 consiglieri; 103 province con presidenti, assessori e consiglieri; 8101 Comuni con Sindaci, assessori, consiglieri; 106 consigli circoscrizionali; 365 comunità montane, con presidenti e giunta.
Abbiamo molti Comuni sotto i 100 abitanti, per esempio: La Magdeleine, in Val d'Aosta, con 93 abitanti; Moncenisio, in Piemonte, con 43 abitanti; Monterone, in Lombardia, con 33 abitanti; Rondanina, in Liguria, con 95 abitanti; Carapello Calvisio, in Abruzzo, con 95 abitanti; Baradili, in Sardegna, con 95 abitanti. In questi Comuni spesso gli abitanti adulti, non sono sufficienti a coprire i posti di amministratori e consiglieri. Tantissimi sono i Comuni di poco superiori ai 100 abitanti.
Sono convinto, scrive Mazziotti, che cominciare a mandare a casa gran parte dello sterminato esercito dei professionisti della politica sia un passo del tutto necessario sulla strada dello sviluppo e della crescita del paese. Risparmieremmo centinaia di milioni di euro l'anno, attualmente tolti dalle tasche di noi contribuenti.
Sproporzionatissimi sono gli "stipendi" degli amministratori pubblici. Il Presidente della Repubblica percepisce uno stipendio di circa 19.000 euro al mese. Di poco inferiore è lo stipendio del Presidente del Consiglio. I Ministri percepiscono circa 16.000 euro mensili. I Senatori circa 16.000 euro al mese. I Deputati circa 15.000 euro al mese. Stipendi di poco inferiori hanno presidenti, vice presidenti e assessori delle Regioni. Gli stipendi dei Sindaci dipendono dal numero degli abitanti, con uno stipendio medio di circa 6.000 euro.
Scandalo maggiore sono le pensioni d'oro degli amministratori pubblici. Noi poveri mortali siamo dei semplici ultra pezzenti rispetto a loro.
Ma adesso basta con le cifre, anche per non correre il rischio di essere apostrofati dai politici di professione con la sparata piena d'ira con la quale l'allora sindaco di Milano Marco Formentini concluse l'intervista con il giornalista Gian Antonio Stella: «Adesso basta, lei mi ha rotto i coglioni».
Al fine di evitare lo spreco di denaro pubblico e dare al sistema Italia quella efficienza, rapidità, completezza dei servizi cui tutti i cittadini hanno diritto, Mazziotti propone la soppressione delle 103 province, delle 365 comunità montane, dei 104 consigli circoscrizionali, e un diverso criterio di accorpamento e gestione delle 20 Regioni e degli 8101 Comuni. Propone anche la riduzione da 950 a non più di 300 parlamentari: 200 deputati e 100 senatori, la sostituzione dei trattamenti economici e pensionistici con gettoni di presenza e con una liquidazione rapportata al numero delle partecipazioni ai lavori parlamentari, introduzione della regola senza eccezioni secondo la quale si può essere eletti deputati e senatori al massimo due volte, introduzione della norma sulle incompatibilità, riduzione delle "pensioni d'oro" di almeno il 50%, eliminazione della boscaglia dei privilegi (vitalizi, auto, scorte, uffici, ecc. a tutti gli ex).
Per quanto riguarda gli enti locali, sostiene ancora Mazziotti, se il decreto Bassanini venisse applicato integralmente, gli amministratori politici diverrebbero mere figure di rappresentanza, costose e inutili, delle quali si potrebbe fare a meno. Non ha alcuna importanza, scrive ancora Mazziotti, che il sindaco sia eletto dal popolo o che sia nominato dall'alto, l'importante è che sappia bene amministrare, sia capace di inverare le aspirazioni dei cittadini e di risolvere i loro problemi esistenziali.
Ultima proposta del Mazziotti è quella di ridurre le attuali 20 regioni a 3 o 4 macroregioni (io opterei per 3). A me ovviamente interessa la macroregione meridionale, che dovrebbe abbracciare l'intero territorio dello storico ex Regno delle Due Sicilie e comprendere quindi Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, più parte dell'odierno Lazio meridionale ed orientale. Si tratta di regioni, dice Mazziotti, che vantano quanto di meglio il paese vanta in materia di bellezze naturali (Capri, Ischia, Procida, le Tremiti, le Eolie e Lampedusa, i Campi flegrei, la costiera sorrentina patrimonio dell'umanità, la Sila, il Vesuvio, l'Etna e Taormina) e di beni e istituzioni culturali (i palazzi reali di Caserta, di Napoli e di Palermo, i giacimenti archeologici di Pompei, Ercolano, Paestum e di Sybari, la valle dei Templi di Agrigento e le Latomie di Siracusa, le università federiciane e i centri di ricerca). Operando le attuali istituzioni separatamente se non addirittura in concorrenza tra di loro, non riescono a trasformare queste "ricchezze" in occasioni di crescita, di sviluppo e di progresso. Unite tutte le regioni meridionali in un'unica macroregione si risparmierebbero alcune centinaia di milioni di euro l'anno. Si dovrebbero pagare solo un governatore, 10 assessori, 60 consiglieri.
Il Mazziotti, pur facendo un calcolo al ribasso, indica lo "spreco di denaro pubblico" per pagare la "spesa inutile" dei professionisti della politica in oltre cinquemila miliardi di euro l'anno.
E' ovvio che non possono essere gli stessi parlamentari o gli eletti nei vari consigli a decretare la propria riduzione o, addirittura, la loro estinzione. Bisogna allora creare dal basso le condizioni perché ciò avvenga.
Rocco Biondi

Gerardo Mazziotti, L'assalto alla diligenza, ovvero Come evitare la rapina di (almeno) diecimila miliardi di lire l'anno, Edizioni DenaroLibri, Napoli 2005, pp. 256, € 8,00

2 settembre 2012

I briganti: proletari senza rivoluzione


Renzo Del Carria, nel suo libro del 1966 "Proletari senza rivoluzione", indica una possibile traccia da seguire nello studio del brigantaggio postunitario (1860-70), che è molto vicina all'approccio da me seguito nella lettura dei fatti avvenuti in quegli anni nel Meridione, nei territori dell'ex Regno delle Due Sicilie.
Dico subito che ho spogliato il libro dall'ideologia marxista sottesa, acquisendo solo il contributo di indirizzo e metodo nella ricerca storiografica. Per completezza d'informazione aggiungo che Del Carria divenne poi dirigente della Lega Nord di Bossi.
Scrive: «Per indagare il perché la rivoluzione sia stata sconfitta in Italia occorre esaminare criticamente la storia contemporanea italiana "a rovescio" partendo nell'indagine dal punto di vista organico delle classi subalterne. Occorre cioè esaminare quegli avvenimenti con gli occhi degli operai, dei contadini e dei loro alleati: occorre esaminare come da loro furono vissuti, come da loro furono visti, e quale fu lo spirito e la volontà di lotta che li animò».
Questo vale anche per il brigantaggio postunitario. Le lotte dei briganti avvenivano senza alcuna ideologia, erano volontà di lotta contro lo Stato nemico, prendendo spesso a prestito ideologie reazionarie (i borbonici e il clero). Le rivolte dei briganti erano "spontanee", non erano dirette da gruppi politici organizzati, non seppero esprimere dirigenti organici, pur avendo in loro forza e volontà rivoluzionaria.
I briganti per narrare le loro lotte avrebbero avuto bisogno di una storiografia organicamente "loro", "a rovescio" rispetto a quella scritta dagli storici borghesi e anche dagli storici revisionisti. Occorreva - scrive Del Carria - romperla con la storiografia della classe dominante. Ma così non fu, sia perché i briganti erano quasi tutti analfabeti, sia perché nessun intellettuale ritenne che quei fatti meritassero di essere scritti e tramandati. Se i briganti e i loro discendenti avessero fatto un tentativo di scrivere la loro storia, raccontare i loro fatti, narrare gli avvenimenti da loro vissuti, così come da loro furono visti durante gli episodi delle loro lotte rivoluzionarie, se tale storia fosse stata scritta, sarebbe stata enormemente diversa da tutte quelle sinora esistenti.
Tentativi di scrivere una simile storia ne sono stati fatti, ma quasi sempre inserendola nella più generale storia "borghese". L'altra storia, autonoma e indipendente, è ancora da scrivere.
In concomitanza con la campagna di Garibaldi in Sicilia, anche nel meridione continentale si era levata la guerra contadina. Nel primo anno con la caratteristica di larghe insurrezioni di masse contadine e nel triennio successivo di una vera e propria guerra contadina per bande. Si trattò di una generale rivolta agraria che richiese per la repressione circa 250.000 uomini, tra esercito piemontese, carabinieri e guardie nazionali. Tale lotta scosse dalle fondamenta tutto l'apparato burocratico-poliziesco della Stato unitario appena nato e impegnò l'intero Stato Maggiore Sabaudo. Le parole d'ordine della rivolta furono «W il Papa», «W il Borbone», «W il popolo basso».
La storiografia ufficiale ha volutamente sottovalutato queste rivolte, attribuendole ad uno stato di arretratezza di masse incolte, definendole violazioni criminali, sopravvalutando l'elemento della cospirazione borbonica (che comunque fu certamente notevole). Il primo storico che invece ha visto queste lotte come una grossa guerra contadina, con caratteristiche proprie, è stato Franco Molfese. La fame e la miseria dei contadini, aumentate con l'abolizione degli usi civici (diritti spettanti alla collettività sui terreni demaniali e non solo), divenivano insopportabili, facevano prendere coscienza dell'ingiustizia e portavano all'aperta rivolta.
I briganti sono il braccio armato del popolo. Nel 1860 la borghesia che deteneva il potere era solo l'1,92% dell'intera popolazione. Oltre l'80% della popolazione era rappresentata da contadini quasi tutti analfabeti. La restante parte era costituita da piccoli artigiani e piccola borghesia. Solo i galantuomini-borghesi erano alleati dei piemontesi. Tutti gli altri guardavano con sospetto i nuovi arrivati piemontesi. Ciò spiega perché i briganti riuscirono a resistere per quasi un decennio.
Le rivolte agrarie e brigantesche meridionali nacquero, si svilupparono e vissero indipendentemente dai Comitati borbonici. I contadini del sud lottarono da soli per circa un decennio, prendendo a prestito dal Borbone il suo bianco vessillo e dalle sue casse i resti dell'oro elargito ai legittimisti. Essi combatterono - scrive il Del Carria - in maniera propria la propria guerra per le proprie rivendicazioni nelle proprie boscaglie contro i propri padroni ed i suoi alleati "piemontesi".
La rivolta dei briganti era carica di una grande esplosione rivoluzionaria, ma con l'unica prospettiva di abbattere la situazione sociale esistente senza purtroppo riuscire a progettare qualcosa di nuovo; così nei fatti la loro battaglia era già perduta sin dall'inizio.
Rocco Biondi