26 dicembre 2013

1861 Pontelandolfo e Casalduni, di Gigi Di Fiore

La prima edizione, ormai esaurita, di questo libro di Gigi Di Fiore fu pubblicata dall’editore Grimaldi di Napoli nel 1998. Ora il libro viene riproposto da Focus Storia. 
     A metà tra saggio e romanzo, viene rievocata la distruzione di Pontelandolfo e Casalduni, due paesi campani, in provincia di Benevento, ad opera dell’esercito piemontese, il 14 agosto 1861. E’ una vicenda, tristemente famosa, legata agli anni del brigantaggio postunitario.
     I briganti furono ribelli che si opposero al nuovo ordine politico sabaudo, imposto con le armi agli abitanti del Regno delle Due Sicilie, senza dichiarazione di guerra. Ma erano anche ribelli alle ingiustizie sociali cui venivano sottoposte le classi soggette ad un secolare sfruttamento economico. I briganti sono stati i veri oppositori alla storia risorgimentale, che tanti danni ha arrecato alla società e alla economia meridionale. Dalla storia ufficiale sono stati considerati criminali, con conseguente giustificazione della repressione armata, con metodi che calpestavano ogni garanzia di diritto.
      Ma in anni più recenti diversi autori (Molfese, Pedìo, De Jaco, Nitti, Scirocco, Topa, Alianello, ecc.) hanno effettuato una lettura più serena e attenta su quelle vicende. I briganti meridionali sono stati partigiani ribelli, che si sono successivamente trasformati in emigranti. Finalità del libro di Di Fiore è quella di raccontare una delle tante storie di quei “vinti”.
      Scrive Di Fiore nella introduzione: “Per almeno due anni, dal 1861 al 1863, molti tra quelli che vennero definiti ‘briganti’ combatterono una loro guerra di Resistenza. Guerra civile contro i soldati ‘piemontesi’ e di classe contro i notabili dell’Italia meridionale. Ansie di riscatto, voglia di terra, fame, disillusione spingevano disperati, ex soldati borbonici sbandati, ex volontari garibaldini, contadini spogliati di fazzoletti di terra, pastori senza più pascoli e sorgenti per le loro greggi, a scatenare la prima guerra civile della nostra storia unitaria, mai abbastanza raccontata”.
      Il libro è una libera rielaborazione delle vicende storiche, ricostruite partendo e lasciando come sfondo un approfondito accertamento su documenti e testi originali. In appendice poi vengono riportati un profilo storico dei personaggi, una cronologia dei fatti narrati, alcuni brani di documenti e testi esaminati, una ricca bibliografia. Intento dichiarato da Di Fiore è quello di carattere divulgativo e non accademico, nel tentativo di incuriosire il lettore non specialistico per spingerlo verso successivi approfondimenti.
      Protagonista del romanzo-saggio è il brigante Pasqualino (nella realtà Ranaudo Pasquale detto Mattone) che si innamora della giovanissima Concetta (Concetta Biondi violentata e uccisa dai piemontesi). Pasquale finirà la sua vita in America, da emigrante.
      La storia d’amore ha come sfondo i tragici fatti che avvennero a Pontelandolfo e Casalduni nell’agosto del 1861. I piemontesi, con la farsa del plebiscito celebratosi il 21 ottobre 1860, camuffarono l’invasione e l’annessione dei territori del Regno delle Due Sicilie. Viene pubblicato dal Piemonte un bando di chiamata alle armi dei giovani del Regno delle Due Sicilie. In molti luoghi questo bando non viene reso noto. I piemontesi eseguono molte fucilazioni dei renitenti alla leva. Cominciano le fughe sulle montagne, alimentate anche dai soldati borbonici sbandati. I piemontesi fucilano meridionali senza nessun processo, distruggono paesi, formano liste di sospetti.
      La popolazione meridionale è ancora dalla parte di Francesco II, ultimo re borbone, anche a Pontelandolfo e Casalduni, ove i briganti capitanati da Cosimo Giordano e Angelo Pica entrano ben accolti dalla popolazione. Il parroco di Pontelandolfo e il sindaco di Casalduni erano di fede borbonica. Dagli uffici pubblici vennero abbattute le insegne sabaude e riposizionate quelle borboniche. Durante la rivolta furono uccisi alcuni “galantuomini” proprietari terrieri, sfruttatori del popolo.
      Le autorità militari piemontesi inviarono degli uomini, al comando del tenente Augusto Bracci, per verificare l’accaduto. Il tenente, non rispettando gli ordini ricevuti di tenersi lontano dai briganti, volle entrare in Casalduni, quasi a sfidarli. Venne ucciso insieme a quaranta suoi soldati.
      La morte di tanti soldati non venne lasciata passare liscia. Doveva essere impartita una solenne lezione a “quei cafoni ribelli”. E fu un massacro di tanti civili innocenti. Il generale Enrico Cialdini, luogotenente del re Vittorio Emanuele, fece inviare quattrocento soldati a Casalduni e cinquecento a Pontelandolfo con l’ordine: “Che di Pontelandolfo e Casalduni non rimanga pietra su pietra”. Fu appiccato il fuoco alle case con ancora molte persone dentro; chi usciva di casa veniva affrontato con le baionette, chi tentava di correre per mettersi al riparo veniva colpito da scariche di fucili. Fu un inferno. Era la legge degli invasori piemontesi: violenze, stupri, saccheggi, uccisioni di innocenti.
      Venne inviato al Comando generale il seguente dispaccio telegrafico: “Giovedì, 15 agosto 1861. Ieri, all’alba, giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni. Essi bruciano ancora”. Quanti furono veramente i morti non si saprà mai. Forse un migliaio. Fu un massacro sul quale pian piano comincia a farsi luce. 

Gigi Di Fiore, 1861 Pontelandolfo e Casalduni. Un massacro dimenticato, Gruner + Jahr/Mondadori, Milano 2013, Edizione di Focus Storia, pp. 192

6 dicembre 2013

I briganti e la corte pontificia, di Emidio Cardinali

Ho finalmente terminata la fatica della lettura dei due volumi di Emidio Cardinali, pubblicati in Livorno dagli Editori Davitti con la data del 1862. Riportando però, alla fine del secondo volume, passi della relazione della Commissione d’inchiesta sul brigantaggio, letta dal deputato Massari nel Parlamento di Torino il 3 maggio 1863 e pubblicata negli Atti parlamentari il 9 agosto dello stesso anno, si suppone che il libro sia stato dato alle stampe alla fine del 1863.
     I briganti presenti nel titolo del libro di Cardinali sono solo un pretesto per scrivere contro il papato (Pio IX) e contro l’ex re delle Due Sicilie (Francesco II). Se si vogliono conoscere un po’ più approfonditamente i fatti del brigantaggio politico e sociale postunitario, anche se dal punto di vista piemontese e unitario, bisogna leggere altro.
     Per conoscere sia da che parte sta il Cardinali e sia il suo stile involuto di difficile lettura, leggiamo un passo del secondo volume, pagina 333: «La stagione dei fiori… nella primavera del 1862… e l’odorato profumo di quell’aere balsamico spirava il contagio mortale della polvere e de’ cadaveri insepolti di assassini bruttamente commisti alle salme benedette de’ martiri italiani immolati dalla ferocia barbarica dell’ultimo Borbone, in lega sacrilega col dominatore di Roma». Dove gli assassini sono i briganti meridionali, i martiri italiani sono i soldati piemontesi, l’ultimo Borbone è Francesco II, il dominatore di Roma è papa Pio IX. Notare anche le aggettivazioni con cui l’autore descrive i quattro protagonisti di quel periodo.
     Da alcuni passi del libro si apprende che Emidio Cardinali è romano, ha studiato nel seminario di Frascati, è stato ufficiale dell’esercito garibaldino, dal settembre 1859 è stato in esilio «balzato dal santuario pacifico dei suoi studi in una vita errante e penosa». Quando ha pubblicato il libro si trovava in esilio a Livorno.
     «Còmpito rigoroso della mia opera è la storia del brigantaggio dalla sua organizzazione presso la corte romana, col corredo di opportune riflessioni politiche», è l’incipit che rivela una lettura molto di parte del fenomeno, quella di un liberale acidamente anticlericale e antiborbonico. E comunque, come già detto, nell’economia generale del libro, al brigantaggio è riservato una spazio marginale, rispetto agli attacchi allo Stato pontificio, alla corte in esilio dell’ex Re delle Due Sicilie Francesco II, alla politica neutrale ed attendista del governo francese di Napoleone III.
     Riporto qui di seguito alcune osservazioni del Cardinali riguardanti il brigantaggio, tralasciando tutti gli altri temi.
     Il brigantaggio è un fenomeno endemico nel Napoletano, che ha infestato quelle provincie fin da remotissimi tempi. Cause ne sono state la configurazione del suolo per buona parte boschivo, la povertà degli abitanti che spingeva alla rapina e alle stragi, il gran numero di chi si trovava in quelle condizioni, la necessità di una gerarchia. «Il brigantaggio si eresse in sistema», scrive il Cardinali, e divenne camorra. Sono concetti ricorrenti in quegli anni, utilizzati per giustificare la repressione spietata ad opera dei piemontesi.
     Francesco II utilizzò e sfruttò i briganti per tentare di ritornare sul trono.
     Di Pontelandolfo e Casalduni il Cardinali, schierandosi apertamente con la ferocia dei piemontesi, scrive: «I due villaggi furono inesorabilmente condannati alle fiamme. Il nome di questi cannibali meritava esser abraso di mezzo al suolo italiano. Crollando le fondamenta de’ loro asili, doveva sperdersi anco la memoria di tanto misfatto».
     Nel libro del Cardinali sono trascritte, in italiano, le carte che il legittimista spagnolo José Borges portava con sé quando venne fucilato dai piemontesi l’8 dicembre 1861: la corrispondenza con il generale Clary, il memoriale, 6 lettere del generale Bosco, 5 lettere di una donna. Parte di questa documentazione era stata pubblicata poco prima da Marc Monnier, «che attesa la piccola mole del suo pregevole opuscolo quasi contemporaneo, poté precorrere la mia pubblicazione», scrive il Cardinali. A proposito del diario di Borges, dice il Cardinali: «Confesso che nel rifarmi più volte a leggere le sue memorie, ho pianto di compassione». Anche per lui le annotazioni di Borges costituivano un atto di accusa contro i briganti, così come i piemontesi avevano interesse a far credere. Anche se poi si contraddice quando afferma: «Egli (Borges) di fronte alla storia non potrà esimersi dal titolo di brigante».
     Contrariamente a quello che il governo piemontese voleva far credere, il Cardinali riteneva che: «Il brigantaggio poteva esser perseguitato, impedito ne’ suoi progressi, intralciato ne’ suoi progetti, ma spento non mai: le cagioni produttrici, dopo la sosta delle dispersioni, gli permettevano di ripullulare ad oltranza». Le cause del brigantaggio non erano estinte nella loro sorgente: la presenza di Francesco II a Roma e il potere temporale del papa che appoggiava e si alleava con il brigantaggio.

Emidio Cardinali, I briganti e la corte pontificia, Napoli 1971, Arturo Berisio Editore, Vol. I (pp. 580), Vol. II (pp. 460), ristampa edizione Editori L. Davitti e C. del 1862

22 settembre 2013

Brigantaggio, di Marc Monnier

"Io non faccio qui la storia del brigantaggio. Noi marciamo dietro al generale Cialdini". Questa frase del Monnier manifesta chiaramente da quale parte sta. E' dalla parte dei piemontesi e degli unitaristi, contro il brigantaggio e i meridionali.
Il libro, pubblicato a Parigi nel 1862 in francese, nello stesso anno venne tradotto in italiano. Ebbe grande notorietà e fortuna, stampando molte edizioni.
Io ho fra le mani l'edizione napoletana di Berisio Editore del 1965, quella dell'editore romano Borzi del 1969 (ristampa anastatica della seconda edizione di Barbera editore del 1862), l'edizione del 2001 di Capone editore di Cavallino (Lecce), l'edizione Osanna di Venosa del 2004, ed infine l'edizione di Capone & del Grifo del 2005.
L'edizione più vicina a quella originale francese (che ho potuto consultare in books.google.it) è quella di Osanna. E' l'unica che traduce e riporta l'avvertenza iniziale, la nota n. 1 del cap. I, il post scriptum al libro. Nell'avvertenza Monnier sostiene di aver lavorato con pazienza e in modo coscienzioso, sforzandosi di essere imparziale ed esauriente. Io però ritengo che imparziale non sia riuscito ad esserlo.
L'operazione nuova e più interessante del libro di Monnier è certamente la pubblicazione che viene fatta in esso, per la prima volta, del Diario del catalano José Borges, legittimista borbonico fucilato dai piemontesi a Tagliacozzo l'8 dicembre 1861. Monnier aveva chiuso la sua storia del brigantaggio nel novembre del 1861, ma venuto in possesso nel marzo 1862 di una copia del Diario di Borges, la inserisce nel suo libro, pubblicato verso la metà del 1862.
Il governo italiano aveva interesse a pubblicare il Diario, in quanto rinveniva in esso motivazioni a sostegno della propaganda unitaria e contro il fenomeno del brigantaggio che stava coinvolgendo tutto il territorio dell'ex Regno delle Due Sicilie. Qualcuno ritiene che Monnier fosse al soldo del governo piemontese.
Monnier sostiene che nel Mezzogiorno il brigantaggio sia sempre esistito e nei primi due capitoli scrive del brigantaggio preunitario, parlando dei briganti Antonelli, Taccone, Bizzarro, Parafante e del generale murattiano Manhès che li combatté.
Poi si parla piuttosto sommariamente del brigantaggio postunitario: dei primi moti negli Abruzzi dell'ottobre 1860, del legittimista tedesco Lagrange, del capo brigante Giorgi e del generale piemontese De Sonnaz, del partigiano legittimista De Christen, di Cipriano della Gala.
Successivamente Monnier parla del brigantaggio politico, della reazione antisavoia del clero, del capobrigante della Basilicata Carmine Crocco, del brigante Giuseppe Nicola Summa, della famiglia aristocratica degli Aquilecchia che appoggiavano il sogno di restaurazione di Francesco II, della presenza delle donne nei moti briganteschi, del capobrigante Chiavone, dei comitati borbonici. Vengono poi elogiate le Guardie nazionali, schierate dalla parte piemontese. Si parla infine della repressione operata dai piemontesi contro Pontelandolfo e Casalduni, due paesi interamente bruciati.
Monnier, prima dell'inserimento del Diario di Borges, chiude il suo libro con la seguente affermazione: «Così i briganti, cacciati dapprima nelle pianure, poi respinti sulle alture del Gargano, del Matese, di Nola, di Somma, del Taburno, della Sila, si son resi in frotte, specie i soldati sbandati, i disertori, i refrattari, dei quali 30 mila almeno son già partiti alla volta dell'Italia settentrionale». Monnier era dal suo punto di vista ottimista e riteneva che il brigantaggio volgeva alla fine. Ma così non fu.
Dovettero passare ancora parecchi anni prima che il brigantaggio finisse. Il giornalista Max Vajro, introducendo l'edizione del libro di Monnier edito da Berisio nel 1965, scrive: «Fucilati via via i briganti, il brigantaggio non morì, permanendo i motivi sociali e politici che lo avevano fomentato».
Monnier, nato in Italia a Firenze da padre francese e madre svizzera, naturalizzato svizzero, scriveva in francese; di formazione cosmopolita, soggiornò a lungo in Italia, gli fu concessa la cittadinanza onoraria a Napoli, morì a Ginevra nel 1885.

Marc Monnier, Brigantaggio: storia e storie, Edizioni Osanna, Venosa 2004, pp. 162

25 agosto 2013

Resistenza antiunitaria nel Tarantino, di Gaetano Pichierri


Il libro, pubblicato nel 1988 dal Comitato di Taranto dell'Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, è per la massima parte una raccolta di articoli dell'autore Gaetano Pichierri, pubblicati su un quotidiano di Taranto, dando luogo a un lavoro d'unione non privo di ripetizioni, e talvolta (dico io) di contraddizioni.
L'autore, dopo aver reso il dovuto omaggio (tenuto anche conto dell'ospitalità dell'Istituto del Risorgimento) ai pochi che credettero e operarono per gli ideali unitari, rivolge l'attenzione a «gl'immensi sforzi compiuti dalle masse contadine spinte da assillanti problemi costituenti il quotidiano dimenarsi nella fame e nella miseria». Nel libro viene offerta una ricca documentazione «onde respingere tentativi e convinzioni di doverci vergognare del nostro passato meridionale».
La lettura della storia dei primi anni postunitari ha bisogno di una revisione, sostiene il Pichierri. Bisogna porre fine alle narrazioni trionfalistiche e retoriche cui ci aveva costretti la falsa "carità di patria" che ha voluto tenere nell'oblio la vera storia della stragrande maggioranza degli abitanti dell'ex Regno delle Due Sicilie. Riesumare quelle pagine di storia, per di più scritte dagli stessi vincitori, serve a «reintegrare nel loro giusto ruolo i contadini-borbonici che strenuamente combatterono e morirono» per un loro possibile riscatto. Anche se purtroppo a vincere furono gli invasori utilizzando le leggi eccezionali, lo stato d'assedio, la legge Pica. A loro vincitori andò la gloria, a noi vinti il disprezzo. E fummo chiamati briganti, termine che però negli anni viene assumendo una connotazione positiva.
Il libro si divide in due parti: la prima parla principalmente della sommossa antiunitaria avvenuta l'8 dicembre 1860 a Sava, un paese del Tarantino che allora contava meno di 5000 abitanti (oggi ne ha circa 16.000), la seconda parte illustra la vita del guerrigliero borbonico Cosimo Mazzeo, detto Pizzichicchio, nato a San Marzano di S. Giuseppe (TA).
Nel 1860 i contadini di Sava (come quelli di tutti gli altri paesi del Sud) non erano in grado di recepire il messaggio dell'ideale dell'unificazione nazionale. Venne accolto invece l'invito alla rivolta contro i proprietari terrieri. L'8 dicembre 1860 un rullo di tamburo fece radunare in piazza 500 uomini al grido di "Viva Francesco II". Un simile numero, scrive Pichierri, voleva dire la quasi totalità del paese, tolti i bambini, che allora non erano pochi, le donne, i vecchi, i malati, gl'inetti, gl'inabili.
A dare man forte alla rivolta contribuirono gli sbandati del disciolto esercito borbonico e l'attivismo del partito borbonico che, per lo stesso giorno, aveva preparato la sommossa anche in altri paesi del Salento. Della rivolta, scrive ancora il Pichierri, non si hanno notizie di eccessi.
La rivolta di Sava fu repressa e finì con l'arresto di ventotto Savesi. Con il fallimento di questa rivolta, fallirono anche gli intendimenti politici del tentativo di ripristino dei Borbone, come del resto in tutto il Sud. E il Pichierri tira una sua conclusione, che io non posso accettare e che contraddice l'impostazione generale del suo libro: «Il fallimento fu un gran bene. Man mano che passerà il tempo, il popolo capirà e fruirà l'inestimabile valore dell'Unificazione di tutti gl'Italiani». Sta avvenendo forse il contrario, il popolo del Sud comincia a capire il grande imbroglio che fu la cosiddetta unità d'Italia.
In quegli anni nel Sud due mondi si contrastavano e si combattevano tra loro, quello dei piemontesi invasori che imposero con le armi l'unificazione e quello delle popolazioni meridionali che difendevano la loro terra e se stessi. Due interessanti documenti, scrive il Pichierri, riassumono questo aspro confronto: la relazione letta in seduta segreta nel Parlamento di Torino dal deputato Massari il 3 maggio 1863 ed un articolo pubblicato sulla rivista dei Gesuiti la "Civiltà Cattolica" il 7 novembre 1863.
I piemontesi impegnarono nel Sud 100.000 unità dell'esercito per annientare l'imprevista resistenza dei "briganti". Termine quest'ultimo rivalutato, nel corso dell'articolo, dalla rivista dei gesuiti scrivendolo sempre con l'iniziale maiuscola.
Scrive ancora il Pichierri: «I contadini, quindi, per il niente che si offriva loro presero la tremenda decisione del tanto vivi, tanto morti, organizzandosi sulle alture e nelle boscaglie».
Uno dei capi di questa resistenza armata fu Cosimo Mazzeo, detto Pizzichicchio. Questa seconda parte del libro si apre con un'osservazione sulla foto che comunemente si ritiene essere quella di Pizzichicchio. E' quella che rappresenta un brigante col fez in testa, viso tondo, senza barba. Il Pichierri, dopo aver detto che quella foto su diversi libri viene pubblicata come quella di Pizzichicchio, afferma di ritenere che sia certamente quella di Cosimo Mazzeo. adducendo come testimonianza di tale attribuzione la presenza, sotto questo nome, nella pubblicazione del catalogo della mostra Briganataggio, lealismo e repressione nel Mezzogiorno 1860-1870, allestita a Napoli nel 1984. Ritengo invece sia proprio questa la ragione che documenta l'infondatezza di tale attribuzione. Infatti quella foto viene raccolta insieme a quelle dei briganti della banda di Nicola Masini, scattate tra la fine del 1865 e gli inizi del 1866. Pizzichicchio era stato fucilato nel novembre 1864. Molto probabilmente l'equivoco è dovuto al fatto che nella banda Masini vi era un brigante chiamato Mazzeo C(armine).
Cosimo Mazzeo, nato nel 1837, aveva fatto parte dell'esercito borbonico, dal quale venne congedato nel dicembre 1860. Non era analfabeta. Fu in stretto contatto con la banda del Sergente Romano. Dopo varie azioni vittoriose, la banda Pizzichicchio subì una disfatta il 17 giugno 1863, presso la masseria Belmonte. Il capobanda, che ancora una volta era riuscito a sfuggire alla morte, venne arrestato definitivamente il 4 gennaio 1864. Il Tribunale Militare di Potenza lo condannò a morte mediante fucilazione il 28 novembre 1864.
Il Pichierri scrive: «Cosimo Mazzeo aveva creduto al suo Re Francesco II e lo aveva servito nella guerriglia con impegno e dedizione combattendo, per lui, solo i suoi nemici; lo fece con discernimento, per la giustizia della povera gente e con dignità per aver fatto parte del suo esercito, senza mai macchiarsi di sangue di innocenti estranei alla resistenza, perché non era un delinquente, ma un onesto contadino che non aveva mai avuto a che fare con la Giustizia». Il suo nome non dovrà più essere pronunciato a mezza voce.

Gaetano Pichierri, Resistenza antiunitaria nel Tarantino, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano - Comitato di Taranto, Lacaita Editore, Manduria 1988, pp. 180
 

7 agosto 2013

Il Brigantaggio, di Giacomo Oddo


Libro totalmente inutile per chi vuole studiare il fenomeno del Brigantaggio postunitario. Tre ponderosi volumi, per un totale di milleottocento pagine, che parlano poco di brigantaggio e molto delle idee antiborboniche, antipontificie, antifrancesi, antigovernative dell'Oddo. Sarebbe stato rispecchiato meglio il contenuto del libro se nel titolo non ci fosse stata la parola "brigantaggio" e la seconda parte del titolo fosse diventata titolo unico "L'Italia dopo la Dittatura di Garibaldi". Dal libro viene fuori infatti una sproporzionata esaltazione della figura di Garibaldi. Scrive l'Oddo a pag. 41 del I volume: «Giuseppe Garibaldi, grande dappertutto, fu grandissimo ad Aspromonte, dove redense la dignità della nazione italiana, già di troppo avvilita per soggezione cieca al gabinetto di Parigi».
La biografia dell'Oddo aiuta a capire il suo pensiero. Abbiamo tratto i seguenti cenni biografici dal Dizionario Biografico degli Italiani online della Treccani. Nato in Sicilia, in una famiglia di media borghesia, fu avviato fin da piccolo alla carriera ecclesiastica. Prese gli ordini religiosi come domenicano. Influenzato dal fratello maggiore, di principi repubblicani, aderì al movimento liberale. Nel gennaio del 1857 fu arrestato per avere capeggiato il movimento rivoluzionario del suo paese. Liberato svestì l'abito religioso e si dedicò all'insegnamento e al giornalismo. A Milano s'iscrisse alla loggia massonica "L'Avvenire" in relazione con il Grande Oriente di Firenze. Divenne un accanito anticlericale. Frutto di questa formazione è il libro che stiamo recensendo. Il suo vero cognome era Bonafede; utilizzò per le sue opere il cognome materno Oddo per evitare che venissero collegate alla sua persona di ex frate.
La valutazione che l'Oddo dà del brigantaggio si ispira al Lombroso. Nell'introduzione (pag. 12 del primo volume) scrive infatti: «Il Brigantaggio non essendo nuovo in Italia ed apparendo in quella stessa provincia dove altra volta infierì, induce facilmente a credere che negli abitanti degli Apennini meridionali siavi al sangue ed alla crudeltà naturale inclinazione». Anche se, poco più avanti, afferma: «Ma io che alla ferocia della natura umana non credo, e non posso indurmi a pensare che alcuni uomini nascano al mondo feroci, cerco non nella natura ma altrove l'origine del male... Non ammetto che l'uomo nasca feroce, ma per mal governo lo diviene».
E per mal governo intende quello dei Borbone, che bolla (con un'affermazione in voga ai suoi tempi) come la negazione di Dio. Secondo l'Oddo i Borbone tagliarono dalla base la legge, il diritto, la coscienza, la moralità, la religione, la verità, la giustizia, per conservare il loro trono. Affermazione questa ovviamente gratuita ed indimostrata, ma solo ideologica e preconcetta.
Ed ancora, per l'Oddo nemici della gente meridionale e amici dei briganti, intesi come ladri e affamati di sangue, furono il Papa ed il Clero. A pag. 32 scrive: «Il sangue, gli incendi, gli stupri, i furti, i misfatti d'ogni maniera, consumati dal brigantaggio nelle province napoletane han messo il clero reazionario fuori della convivenza umana». Come si vede l'Oddo scambia l'oppresso con l'oppressore.
Altra causa importante per la permanenza del brigantaggio nelle regioni meridionali vengono considerati la "occupazione francese" dello Stato Pontificio e la tolleranza francese ai passaggi dei briganti lungo i confini. Scrive Oddo a pag. 42:
«E' da Roma che i briganti partono armati verso le provincie napoletane, ed è in Roma che trovan rifugio, se perseguitati. Intanto la bandiera francese ricuopre e tutela quel covo di malfattori». In realtà si lamentava che il governo francese non appoggiasse apertamente le mire espansionistiche piemontesi.
Ma Oddo non risparmia nelle sue critiche nemmeno il Governo italiano, che «non si trovò mai all'altezza delle circostanze e dei tempi; colpa in parte dei sistemi, ed in parte delle persone» (pag. 594 vol. III). Lo studio sui movimenti delle truppe nelle provincie napoletane insegnerebbe a chiunque la inettezza dei comandanti; ed i briganti, che di ciò si accorsero a tempo, schernirono chi li perseguitava (pag. 595 del terzo volume).
Il motivo principale per il quale l'opera dell'Oddo è tanto voluminosa consiste principalmente nel fatto che in essa sono stati inseriti tantissimi documenti di varia provenienza. Di essi però, anche se per la maggior parte fra virgolette, non viene citata la fonte. Come non esistono note e bibliografia alcuna. I pochi fatti di brigantaggio presenti nei volumi sono tratti e copiati quasi tutti (come lo stesso Oddo però fa notare) dall'opera di Alessandro Bianco di Saint-Jorioz " Il Brigantaggio alla frontiera pontificia", che in quegli stessi anni veniva pubblicata.
Nel volume secondo viene trascritto l'intero diario di Borges, per ben 58 pagine (279-337).
I tre volumi furono pubblicati in Milano dall'editore Scorza Di Nicola quando i fatti di brigantaggio ancora avvenivano, rispettivamente il primo nel 1863, il secondo nel 1864, il terzo nel 1865. Le Edizioni Libreria Dante & Descartes di Napoli hanno ristampato anastaticamente l'opera nel 1977, raccogliendola in cofanetto in 499 copie numerate. Nutro qualche perplessità sulla bontà e utilità di questa operazione.

Giacomo Oddo, Il Brigantaggio o l'Italia dopo la dittatura di Garibaldi, Edizioni Libreria Dante & Descartes, Napoli 1997, tre volumi in cofanetto, pp. 602 - 600 - 598, ristampa anastatica dell'edizione di Milano 1863/1865 presso Giuseppe Scorza Di Nicola Editore

8 luglio 2013

Il Brigantaggio, di Cesare Cesari

Finalità del libro era quella di esaltare l'opera dell'esercito italiano, nella lotta contro il brigantaggio che fiorì nell'Italia meridionale nel decennio 1860-1870, contro le manchevolezze del governo italiano, che non fece nulla di pratico per affrontare e risolvere le cause sociali che avevano dato vita e sorreggevano quel fenomeno. L'azione del governo si limitava, afferma il Cesari, alla repressione e non alla prevenzione, che avrebbe dovuto aiutare gli indigenti, aprire scuole, sorreggere il clero, completare lavori pubblici di immediata utilità.
A cinquantanni dagli avvenimenti (il libro venne pubblicato nel 1920), il tenente colonnello Cesari, che lavorava nell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito, aveva interesse a non minimizzare la forza dei briganti che operavano nei territori dell'ex Regno delle Due Sicilie. Veniva così giustificato che «oltre 120 mila soldati si trovavano pertanto nell'autunno di quell'anno [1861] nel Napoletano e in Sicilia, rappresentando siffatta cifra poco meno che la metà dell'intiera forza sotto le armi».
Le popolazioni meridionali consideravano quell'esercito italiano «violatore e usurpatore dei legittimi diritti dello stato napoletano». Nell'immaginazione popolare, scrive il Cesari, il brigantaggio era una milizia proletaria, in difesa delle istituzioni borboniche, che con i suoi eroismi, con le sue sofferenze, con le sue glorie era degna di essere coadiuvata e sorretta materialmente e moralmente.
Il libro del Cesari, pur scritto dalla parte dell'esercito piemontese, rappresenta anche un riconoscimento delle ragioni della lotta armata delle popolazioni meridionali. Il libro si apre con l'affermazione, quasi una epigrafe: «Uno studio completo sul brigantaggio non è ancora stato fatto e difficilmente potrà farsi in avvenire».
Secondo il Cesari molteplici sono le cause di questa difficoltà, ma la principale è l'esistenza di un materiale documentario che per quanto abbondante è assai frammentario e tuttora disperso.
Mentre la migliore raccolta di documenti militari è conservata nell'archivio storico dello Stato Maggiore, invece i carteggi politici ad amministrativi, indispensabile complemento per capire la materia, giacciono nascosti negli archivi dello Stato, delle Provincie e dei Comuni, o peggio, per i frequenti cambi di sede degli enti pubblici dal 1860 in poi, sono andati perduti.
Ma anche se tutti questi documenti ufficiali tuttora esistenti venissero riuniti, sostiene il Cesari, mancherebbe alla narrazione dei fatti di brigantaggio quella particolare essenza di elementi psicologici e aneddotici che solo le fonti private, i libri di appunti e le note personali possono fornire, elementi questi ultimi «in gran parte scomparsi o tutt'al più conservati presso qualche famiglia come carte intime non destinate alla pubblicità». Mancando questa seconda ed importante sorgente privata viene a mancare il necessario colore delle anime e degli ambienti.
Un altro ostacolo per la trattazione del fenomeno del brigantaggio, sosteneva il Cesari nel 1920, è il non poter raffrontare i documenti di parte italiana con quelli ufficiali e segreti di parte borbonica, di parte pontificia ed anche di parte straniera, «perché essendo stata la reazione politica il principale movente di quella insurrezione sarebbe logico e giusto poter consultare in parallelo, come si fa nelle relazioni delle campagne di guerra, le varie documentazioni dei belligeranti».
A compensare questo materiale mancante avrebbe potuto intervenire la ricca produzione bibliografica, già allora esistente, ma fra le centinaia di libri sul brigantaggio, dice il Cesari, sono rarissime le pubblicazioni importanti ed originali.
Anche nei giornali, contemporanei ai fatti, prevale la fantasia sulla realtà.
Per tutti questi motivi, sostiene ancora il Cesari, «uno studio sul brigantaggio deve percorrere vie diverse da quelle battute fin qui, considerando il fenomeno come un lungo episodio di reazione politica con tutte le sue cause e con tutti i suoi effetti, come qualunque altro fenomeno storico riflettente la sostituzione di due diverse forme di governo e di due diversi ordinamenti statali».
E' ovvio che il Cesari ritiene che l'unità d'Italia andava comunque fatta, e quindi giustifica tutto ciò che i Piemontesi fecero in quegli anni, specialmente quello che fece l'esercito «che nella sua opera modesta, disinteressata, coscienziosa, fu il primo fattore dell'unità della patria».
Il libro quindi ripete sostanzialmente quello che si diceva dal lato dei Piemontesi, a cominciare dalla divisione temporale che si dava al fenomeno, ritenuto politico fino al 1863, frammisto alla delinquenza comune negli anni successivi, fino a diventare solo delinquenza.
Certamente la novità del libro consiste nella puntuale descrizione della dislocazione delle truppe in azione nelle zone e sottozone in cui fu diviso il territorio dell'ex Regno delle Due Sicilie, con i relativi comandi e nomi dei comandanti. In appendice poi sono riportate le ricompense accordate ai vari corpi dell'esercito per la repressione del brigantaggio: Stato maggiore, Carabinieri, Granatieri, Fanteria, Bersaglieri, Cavalleria, Artiglieria, Genio.
Si parla della Corte borbonica, che da Gaeta si era trasferita a Roma insieme al re Francesco II; si parla dei legittimisti stranieri (di alcuni solo con brevi cenni) che erano venuti (non si sa quanto disinteressatamente) in soccorso del re Borbone in esilio: De Crysten, Josè Borges, Raffaele Tristany, Zimmerman, Alfredo de Trazeignes, Lagrance, ecc.; si parla dei capi briganti (e delle loro bande, che numerose operarono in tutto il Sud): Giuseppe Nicola Somma (Ninco Nanco), Giovanni Piccioni, Luigi Alonzi (Chiavone), Domenico Coia (Centrillo), Giano [Giona] e Cipriano La Gala, Carmine Crocco, Michele Caruso, ecc.
Il Cesari chiude ottimisticamente il libro scrivendo: «andarono gradatamente affermandosi in tutta l'Italia meridionale la fiducia nelle nuove istituzioni e il sentimento unitario». Ma in realtà così non fu. 

Cesare Cesari, Il Brigantaggio e l'opera dell'Esercito Italiano dal 1860 al 1870, Arnaldo Forni Editore, Sala Bolognese (BO) 2002, Ristampa anastatica dell'edizione del 1920 dell'Ausonia di Roma, pp. 176

1 maggio 2013

Separiamoci, di Marco Esposito


"Separiamoci" è il grido che dovrebbe essere lanciato da tutti i Meridionali che vogliono perseguire il loro vero interesse. In 152 anni di unità d'Italia il Sud è stato progressivamente spogliato dei suoi beni e abbandonato a se stesso. Ci si vergogna quasi a ricordare i primati che il Sud possedeva fino al 1860 (quando l'ex Regno delle Due Sicilie fu invaso militarmente dai piemontesi) nei campi della scienza, dell'arte, dell'industria, del rispetto dei beni comuni, delle conquiste civili. Nel 1860 il PIL del Regno era uguale a quello medio della penisola italiana; i lavoratori dell'industria erano in proporzione più al Sud che al Nord. Negli anni il sistema bancario del Sud è stato assorbito da gruppi del Nord: il Banco di Napoli dalla torinese Banca Intesa Sanpaolo, il Banco di Sicilia dal gruppo milanese Unicredit. Dopo le banche il Mezzogiorno si è fatto sfilare anche i giornali.
Scrive Esposito: «Se un Paese commette tanti errori e, nonostante l'evidenza del declino, non pone rimedi è perché quel medesimo Paese si osserva e si giudica tramite una lente deformata». La sua classe dirigente non è in grado di correggere gli errori che l’hanno portata in quello stato. La palla al piede non è il Mezzogiorno, come superficialmente si dice, ma è l'incapacità di vedere lontano nel tempo e nello spazio, è la manifesta inadeguatezza politica e culturale della classe dirigente del Nord.
In questa situazione diventa logico chiedersi se non convenga a tutti, e certamente al Sud, di separarsi e ritrovare la propria indipendenza. Solo così il Sud potrebbe riannodare il filo spezzato della sua storia. Nell'ultimo capitolo del libro Esposito sembra pentirsi di questa conclusione, come avviene in una coppia dopo una vita di comunione matrimoniale. Ci si scopre ancora innamorati: «L'Italia potrebbe tornare a innamorarsi di se stessa, tutta intera». Ma ritengo sia un pentimento retorico, se le condizioni poste sono le seguenti: istituzione di un giorno della memoria per tutte le vittime dell'invasione e della repressione piemontese, ritorno in Patria delle ossa dei briganti custodite nel museo Lombroso a Torino, intitolazione di una via Pontelandolfo in ogni capoluogo di Provincia, riscrizione di tutte le regole sul federalismo, chiusura nel Sud delle discariche di rifiuti tossici provenienti dal nord con relativo disinquinamento.
Marco Esposito fornisce anche dettagliate istruzioni pratiche per l'attuazione della separazione. Pur restando nell'ambito dell'attuale Costituzione, ricorrendo alla procedura dettata dall'articolo 138, la Repubblica può cambiare la sua natura da unitaria a federale e persino i suoi confini possono essere rivisti. Percorso stretto ma non inaccessibile. E poi l'Italia è campione dell'interpretazione delle leggi. L'unica preclusione è data all'uso della violenza fisica, perché eticamente inaccettabile. Quel che conta è la spinta popolare, anche se «il momento del disgusto popolare nei confronti di un'Italia diventata matrigna per larga parte della penisola [il Sud] forse è ancora lontano, ma i segnali non mancano».
Senza alcuna modifica costituzionale, facendo ricorso all'articolo 132 della Costituzione, per ridare al Mezzogiorno una sua centralità si potrebbe creare una macroregione meridionale. Secondo Esposito dovrebbero entrarne a far parte le regioni del Sud continentale: Campania, Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata e Calabria. Io ci aggiungerei anche la Sicilia, più parte dell'odierno Lazio meridionale ed orientale. Altri vorrebbero aggiungere anche la Sardegna. La popolazione di questa maccroregione sarebbe superiore a quella di nazioni come Grecia, Portogallo o Svezia. La sua Giunta, con il presidente eletto direttamente dai cittadini, avrebbe un peso politico specifico tale da condizionare l'attività del Governo italiano. Tale macroregione potrebbe rappresentare una via intermedia tra l'attuale Italia unita e la totale indipendenza futura del Sud.
Fra le varie opzioni in campo Esposito individua e sceglie anche nome, capitale, bandiera, moneta, che il Sud indipendente potrebbe avere. Nome: Mediterranea, capitale: Napoli, bandiera: giallo e rosso, moneta: euro.
Certo, scrive Esposito, far nascere un nuovo Stato richiede convinzione nei propri mezzi e anche una certa dose di spregiudicatezza, capacità di osare. Ma forse è proprio questo che serve: credere in se stessi, tornare a sognare.
Pino Aprile nella prefazione al libro scrive: «Separiamoci elenca tutte la ragioni che potrebbero rendere inevitabile il ritorno a un Sud indipendente; e spiega come farlo bene, se quelle ragioni continueranno a essere ignorate».
Marco Esposito è napoletano, classe 1963. Ha lavorato come giornalista per Milano Finanza, la Voce, il Messaggero, la Repubblica, il Mattino. Dal 2011 è assessore al Commercio e alle Attività produttive del Comune di Napoli. 
Rocco Biondi 

Marco Esposito, Separiamoci, prefazione di Pino Aprile, Magenes Editoriale, Milano 2013, pp. 165, € 12,00

15 aprile 2013

La legislazione penale dell'emergenza in Italia, di Pasquale Troncone


Il libro analizza gli aspetti giuridici di quello che accadde nel Mezzogiorno nel decennio 1860-1870 in cui si realizzò la cosiddetta unità d'Italia. Le spinte ideali che portarono all'unità furono annullate dall'azione condotta dal potere sabaudo. Per contenere la rivolta sociale contro l'invasione, dai piemontesi furono usate leggi eccezionali particolarmente repressive. Oltre la metà dell'esercito intervenne nel Sud e diede vita ad iniziative arbitrarie. Venne ingaggiata una lotta spietata e senza regole contro il brigantaggio.
Il fenomeno del brigantaggio anche se ha profonde radici storiche, tuttavia nel periodo postunitario assume una connotazione particolare. All'aspetto di disagio sociale si aggiunge quello di rivolta politica contro i nuovi modelli di governo imposti dal potere piemontese e contro la cacciata dei sovrani borbonici. Il legittimismo borbonico ebbe anche un attivo sostegno della Chiesa.
Nella legislazione vi è una netta demarcazione normativa tra la figura del delinquente comune e quella del brigante. Quest'ultimo assume una precisa connotazione politica di vero e proprio partigiano del deposto Sovrano, è un combattente legittimista. Anche se il nuovo potere sabaudo ha interesse a far perdere al brigantaggio qualsiasi caratteristica politica o ideologica e lo fa apparire come semplice fenomeno delinquenziale. Questa mistificazione ebbe una sua copertura pseudoscientifica con l'opera del medico Cesare Lombroso.
Lo Stato Unitario non aveva fonti legislative di legittimazione. Questo vuoto legislativo venne occupato dal potere militare. Quando i Piemontesi entrarono in territorio napoletano nell'ottobre 1860, scrive Mack Smith, una delle prime azioni del generale Cialdini fu di far fucilare sul posto ogni contadino che fosse trovato in possesso di armi. L'onda montante dello scontento e gli scontri armati divenuti sempre più frequenti spinsero i piemontesi alla proclamazione dello stato d'assedio militare. Risposta conseguente fu che contro l'esercito piemontese si coalizzarono bande di briganti di ispirazione legittimista, garibaldini delusi, ex soldati borbonici, sbandati venuti fuori dalle carceri, e soprattutto contadini profondamente delusi nella loro aspettativa promessa delle terre.
Il comando delle operazioni militari, con sede in Torino, seguì un itinerario di intervento tipico di uno stato di guerra, seppure mai dichiarato. La legislazione non riuscì più a fare fronte al disordine pubblico, lasciando il campo ad una indiscriminata azione repressiva, lontana da qualsiasi garanzia legislativa.
Il Parlamento di Torino nei primi mesi del 1862 tentò di riprendere la sua iniziativa di centralità democratica ed istituì una Commissione d'inchiesta dotata di ampi poteri, con il mandato di studiare le ragioni e lo stato del brigantaggio e di additare gli opportuni rimedi. La relazione finale della Commissione venne letta dal deputato tarantino Giuseppe Massari, in seduta segreta alla Camera, il 3 maggio 1863 e conteneva una concreta analisi delle cause che avevano portato al brigantaggio. Venne anche proposto dalla Commissione un progetto di legge composto da 29 articoli. Questo progetto non diventò mai legge e al suo posto venne approvata una legge, proposta dal deputato abruzzese Giuseppe Pica, composta di soli nove articoli, del tutto difforme alle premesse dettate dalla commissione Massari.
Scrive l'autore Troncone, professore presso l'Università di Napoli: «La legge Pica raccolse tutti i possibili difetti che il progetto della commissione Massari aveva ritenuto di evitare. Sul piano politico rappresentava un cedimento al potere militare e l'impianto normativo appariva come una sorta di ratifica legislativa per quanto l'esercito aveva fino a quel momento attuato ed una sostanziale autorizzazione preventiva per quanto riterrà di realizzare per il futuro. Sul piano giuridico la legge si segnala per la obiettiva carenza di tutti i caratteri della legalità costituzionale». La pena prevista per i briganti che avessero opposto resistenza armata era quella della fucilazione. Chi appoggiava in qualsiasi modo l'azione dei briganti poteva essere condannato ai lavori forzati a vita. Veniva anche istituito il domicilio coatto per gli oziosi, i vagabondi, le persone sospette.
Con regio decreto venne dichiarato in stato di brigantaggio quasi tutto il Mezzogiorno e furono istituiti otto Tribunali militari speciali, che si aggiunsero ai quattro già preesistenti.
Con la legge Pica si realizzava una diretta e formale violazione del principio di eguaglianza dei cittadini del Regno, stabilito dall'art. 24 dell'allora vigente Statuto Albertino; quelle norme infatti erano valide solo per una parte del territorio italiano. Quei provvedimenti legislativi di emergenza inoltre sospendevano di fatto sia norme di valore ordinario che disposizioni costituzionali. Con l'istituzione dei Tribunali militari speciali veniva introdotta una formale e pesante deroga dell'art. 71 dello Statuto, che recitava: «Niuno può essere distolto dai suoi giudici naturali. Non potranno essere creati Tribunali o Commissioni straordinarie». Il diritto di difesa veniva quasi totalmente annullato, il ministero del difensore veniva esercitato da un ufficiale dell'esercito.
La legislazione per la lotta al brigantaggio, varata nella seconda metà dell'800, contiene un modello tipico di intervento che sarà più volte usato in futuro nella lotta alla criminalità politica organizzata.
Rocco Biondi

Pasquale Troncone, La legislazione penale dell'emergenza in Italia, Jovene Editore, Napoli 2001, pp. 256

6 marzo 2013

Fonti per la storia del brigantaggio postunitario. Tribunali militari straordinari


I tribunali militari straordinari furono istituiti con la legge del 15 agosto 1863 n. 1409, detta legge Pica dal nome del proponente. Essi erano funzionali alla repressione del brigantaggio. La competenza a giudicare su briganti e complici veniva sottratta alla giurisdizione ordinaria, per garantire l'allineamento ai piani dell'esecutivo ed eliminare nei fatti il diritto di difesa. Detta legge avrebbe dovuto restare in vigore fino al 31 dicembre 1863, ma venne prorogata fino al 31 dicembre 1865. Già con legge dell'8 agosto '63 era stata devoluta agli stessi tribunali militari la competenza per i reati di renitenza alla leva.
Nel volume sono inventariati gli atti dei dodici tribunali militari straordinari sul brigantaggio operanti ad Aquila per i circondari di Aquila e Cittaducale, Avellino per la provincia di Avellino e per il circondario di Nola, Bari per la terra di Bari, Campobasso per il Molise, Caserta per il circondario di Caserta Piedimonte e per la provincia di Benevento, Catanzaro per la provincia di Catanzaro, Chieti per il circondario Lanciano Vasto Sulmona, Cosenza per la provincia di Cosenza, Foggia per la Capitanata, Gaeta per i circondari di Formia Sora ed Avezzano, Potenza per la Basilicata, Salerno per la provincia di Salerno.
La documentazione prodotta dai Tribunali militari, comprendenti gli anni dal 1862 al 1866, venne prima inviata a Torino e poi nel 1920 all'Archivio di Stato di Roma.
Dallo studio ed analisi della documentazione, oltre alle notizie sui briganti, sui movimenti delle bande e la loro composizione, scaturiscono anche notizie ed informazioni attinenti la vita sociale dell'epoca. Accanto ai nomi di bande e briganti, si affiancano quelli delle persone che con il loro sostegno permisero al brigantaggio di vivere ed espandersi. Si evidenziano storie di uomini e donne che speravano di poter migliorare il loro stato favorendo ed aiutando il brigantaggio.
Il fondo comprende 193 buste e 2.324 fascicoli. Per ogni tribunale una prima parte del materiale documentario è costituita dai fascicoli delle istruttorie; una seconda parte comprende un corredo di atti, d'indole più generale, attinente ai procedimenti; una terza parte riguarda la documentazione relativa alla organizzazione, al funzionamento ed all'attività del tribunale.
L'ordine cronologico dei documenti parte dal documento con data più antica fino a quello con data più recente. Buste e fascicoli portano numeri progressivi. Alcuni fascicoli mancano.
La documentazione è ricca di informazioni sui briganti: loro aspetto e modo di vestire, armi di cui erano forniti, cosa mangiavano, atti commessi nelle loro scorrerie, loro rifugi, come scrivevano, come manifestavano la critica al nuovo governo piemontese.
Sono presenti diverse figure femminili: madri, sorelle, mogli, amanti. Per lo più il loro ruolo consisteva nel fornire vettovaglie e nascondigli, ma alcune condividevano la vita dei briganti: erano brigantesse a pari titolo degli uomini.
Grande interesse presentano lettere e biglietti dei briganti o di sequestrati dai briganti con le richieste per il riscatto: denaro, generi alimentari, vestiti. Talvolta queste lettere (o biglietti) sono d'indole personale indirizzate a parenti o amici. Altre sono relative ad una eventuale costituzione alle autorità. Non mancano ovviamente quelle con minacce.
Molte informazioni presenti nei documenti riguardano il cosiddetto manutengolismo, l'appoggio fornito dai cittadini di ogni ceto ai briganti.
Viene anche fuori che per combattere il brigantaggio qualsiasi mezzo diveniva lecito: in modo particolare mezzi coercitivi sui familiari dei briganti.
In casi piuttosto rari risultano inseriti agli atti le difese degli avvocati, quasi sempre d'ufficio, che per lo più mettono in luce l'ignoranza e le misere condizioni sociali ed economiche degli imputati.
Ma talvolta, quasi inavvertitamente, viene fuori che il nuovo governo aveva parecchio da rimproverarsi.
Molto ricco l'apparato degli indici, sia quello onomastico che quello toponomastico. Cognomi e nomi sono riportati in ordine alfabetico. Dopo il nominativo è segnato il numero del fascicolo che contiene l'istruttoria o la citazione.
Per dare un'idea del contenuto del libro elenco alcuni nomi di capibanda le cui gesta si rilevano dagli atti: Vincenzo Acri, Luigi Alonzi "Chiavone", Antonio Andreottola, Giovanni Bellusci degli "Albanesi", Pietro Bianchi degli "Albesi", Giuseppe Capasso, Luigi Cerino, Angelo Cerullo, Francesco Cianci, Riccardo Colasuonno "Ciucciariello", Giuseppe Critelli "lo russo", Carmine Crocco Donatelli, Angelo Maria Cucci "lo spezzanese", Domenico Di Pace, Antonio Di Somma, Angelantonio e Pasquale Di Tore, Antonio Franco, Domenico Fuoco, Cosimo Giordano, Carlo Giuliano "Toscio", Crescenzo Gravina, Francesco Guerra, Giuseppe Iovino "Curcio", Cipriano La Gala, Marciano Lapio "Sacchetta", Francesco Lavalle, Antonio e Domenico Lisbona Esposito, Antonio Manfra "Caporale", Gaetano Manzo, Antonio Maratea "Ciardullo", Primiano Marcucci, Luciano Martino, Pasquale Martone, Angelantonio Masini, Carmine Melito, Pietro Monaco, Alessandro Pace, Carmine Palumbo, Raffaele Paonessa "Sciameo", Pasquale Perrelli, Bruno Pinnola, Policarpo Romagnoli, Agostino Sacchitiello, Domenico Sapia "Brutto", Salvatore Scenna "Contini", Giuseppe Schiavone, Antonio Secola, Pietro Simonetta "Corea", Vincenzo Spinelli "Campa", Domenico Straface "Palma", Giuseppe Nicola Summa "Ninco-nanco", Felice Taddeo, Nunzio Tamburini, Francesco Tommasini "Zoccolone", Gaetano Tranchella, Domenico Valerio "Cannone".
L'inventario pubblicato nella collana Strumenti, di 612 pagine, è stato curato da Loretta De Felice ed è datato 1998.
Negli anni successivi nella stessa collana è stata pubblicata la "Guida alle fonti per la storia del brigantaggio postunitario conservate negli Archivi di Stato", in tre volumi per un totale di 2330 (duemilatrecentotrenta) pagine.
Rocco Biondi

Ministero per i beni culturali e ambientali - Ufficio centrale per i beni archivistici, Fonti per la storia del brigantaggio postunitario conservate nell'Archivio centrale dello Stato, Inventario a cura di Loretta De Felice, Roma 1998, pp. 612

23 gennaio 2013

Il 24 e 25 febbraio non voto

Le liste sono state presentate. Io in Puglia non sono rappresentato da nessuno. I partiti tradizionali sono tutti venduti al nord. Quelli del Grande Sud sono ladri della dignità. Non è votabile un comico genovese antimeridionale. Ho letto i punti programmatici della Rivoluzione Civile di Ingroia, non ve ne è uno che parli del Sud. Il 24 e 25 febbraio, anche se farà freddo, dovrò andare al mare. In attesa di tempi migliori per il Sud.

20 gennaio 2013

Fulvio D'Amore sulla mia recensione di "Michelina Di Cesare"


In risposta alla mia breve recensione del libro di Fulvio D'Amore: Michelina Di Cesare guerrigliera per amore, pubblicata nel mio blog il 23 settembre 2012, l'autore in data 03/01/2013 mi ha mandato la seguente email.
Egregio Signor Rocco Biondi
Evidentemente lei non ha letto con attenzione il mio libro su Michelina Di Cesare o forse, essendo un "giornalista" e non certo uno storico, non capisce il senso della ricerca che non è e non deve essere un cabaret fenomenologico che si presta magnificamente a qualsiasi uso politico.
Politicità della storia non equivale, non deve equivalere allo schieramento della ricerca al servizio di qualcosa che sia diverso dalla ricerca stessa, cioè della verità (di qualche frammento di verità, meglio). Fare storia significa pur sempre in primo luogo interrogarsi sugli interni meccanismi del
lavoro storico, sulla pratica concreta e sui suoi scopi.
I miei 59 libri scritti fino ad ora (dall'Età Moderna a quella Contemporanea) non sono stati mai improntati per fini commerciali. Facendo parte della Deputazione Abruzzese di Storia Patria (L'Aquila) molti dei miei saggi, prima di essere approvati e pubblicati, sono stati sempre vagliati da severi Comitati Scientifici.
Oltretutto, lei dovrebbe dimostrare che le fotografie pubblicate nel libro non sono quelle di Michelina Di Cesare (come lei afferma).
Per questo le dico che le solite chiacchiere da bar lasciano il tempo che trovano.
La consiglio di frequentare gli archivi, invece di sparare a zero su chi da oltre venti anni studia la storia del Meridione con fatica e rigore storico.
Tra l'altro, prima di esprimere giudizi semplicistici dal suo Blog, occorre confrontarsi con le note del mio libro e verificarle.
Tenga ben presente, che nessuno storico può accontentarsi di verità imposte da partiti, o magari da conventicole di varia natura e portata, né di giudizi dati da "giornalisti".
Cordiali saluti
Fulvio D'Amore
Avezzano (AQ)
Formulo qualche risposta e considerazione sul contenuto dell'email, sorvolando comunque sulle "chiacchiere da bar" in essa contenute.
1) Quando un autore pubblica un libro, lo affida alla valutazione del lettore che può essere positiva, negativa, indifferente. La mia comunque è frutto di una molto attenta lettura, anche delle note.
2) Lei niente ha detto del mio appunto più significativo: "Delle 343 pagine del libro solo una ventina parlano della brigantessa Michelina Di Cesare".
3) Per quanto riguarda la pseudo foto di Michelina Di Cesare riporto quello che ha scritto Paolo Morello (che ha insegnato storia della fotografia in varie università e ha diretto l'Istituto Superiore per la Storia della Fotografia), nel suo libro Briganti del 1999 a pag. 50: «Un incanto analogo promana da due cartes de visite, oggi all'archivio del Museo del Risorgimento di Roma, che effigiano una bella brigantessa in costume (qualche volta identificata con Michelina Di Cesare, ma senza fondamento...). Queste fotografie non raffigurano una brigantessa reale, assai probabilmente, bensì una modella, messa in posa dal fotografo nel suo atelier». E aggiungo che il volto della modella nulla ha a che fare con quella di Michelina Di Cesare morta, uccisa e fotografata dai piemontesi.
4) Meraviglia che nella bibliografia del suo libro non abbia citato Brigantesse di Valentino Romano del 2007, quindi antecedente al suo e della stessa casa editrice Controcorrente.
Cordiali saluti
Rocco Biondi