25 agosto 2013

Resistenza antiunitaria nel Tarantino, di Gaetano Pichierri


Il libro, pubblicato nel 1988 dal Comitato di Taranto dell'Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, è per la massima parte una raccolta di articoli dell'autore Gaetano Pichierri, pubblicati su un quotidiano di Taranto, dando luogo a un lavoro d'unione non privo di ripetizioni, e talvolta (dico io) di contraddizioni.
L'autore, dopo aver reso il dovuto omaggio (tenuto anche conto dell'ospitalità dell'Istituto del Risorgimento) ai pochi che credettero e operarono per gli ideali unitari, rivolge l'attenzione a «gl'immensi sforzi compiuti dalle masse contadine spinte da assillanti problemi costituenti il quotidiano dimenarsi nella fame e nella miseria». Nel libro viene offerta una ricca documentazione «onde respingere tentativi e convinzioni di doverci vergognare del nostro passato meridionale».
La lettura della storia dei primi anni postunitari ha bisogno di una revisione, sostiene il Pichierri. Bisogna porre fine alle narrazioni trionfalistiche e retoriche cui ci aveva costretti la falsa "carità di patria" che ha voluto tenere nell'oblio la vera storia della stragrande maggioranza degli abitanti dell'ex Regno delle Due Sicilie. Riesumare quelle pagine di storia, per di più scritte dagli stessi vincitori, serve a «reintegrare nel loro giusto ruolo i contadini-borbonici che strenuamente combatterono e morirono» per un loro possibile riscatto. Anche se purtroppo a vincere furono gli invasori utilizzando le leggi eccezionali, lo stato d'assedio, la legge Pica. A loro vincitori andò la gloria, a noi vinti il disprezzo. E fummo chiamati briganti, termine che però negli anni viene assumendo una connotazione positiva.
Il libro si divide in due parti: la prima parla principalmente della sommossa antiunitaria avvenuta l'8 dicembre 1860 a Sava, un paese del Tarantino che allora contava meno di 5000 abitanti (oggi ne ha circa 16.000), la seconda parte illustra la vita del guerrigliero borbonico Cosimo Mazzeo, detto Pizzichicchio, nato a San Marzano di S. Giuseppe (TA).
Nel 1860 i contadini di Sava (come quelli di tutti gli altri paesi del Sud) non erano in grado di recepire il messaggio dell'ideale dell'unificazione nazionale. Venne accolto invece l'invito alla rivolta contro i proprietari terrieri. L'8 dicembre 1860 un rullo di tamburo fece radunare in piazza 500 uomini al grido di "Viva Francesco II". Un simile numero, scrive Pichierri, voleva dire la quasi totalità del paese, tolti i bambini, che allora non erano pochi, le donne, i vecchi, i malati, gl'inetti, gl'inabili.
A dare man forte alla rivolta contribuirono gli sbandati del disciolto esercito borbonico e l'attivismo del partito borbonico che, per lo stesso giorno, aveva preparato la sommossa anche in altri paesi del Salento. Della rivolta, scrive ancora il Pichierri, non si hanno notizie di eccessi.
La rivolta di Sava fu repressa e finì con l'arresto di ventotto Savesi. Con il fallimento di questa rivolta, fallirono anche gli intendimenti politici del tentativo di ripristino dei Borbone, come del resto in tutto il Sud. E il Pichierri tira una sua conclusione, che io non posso accettare e che contraddice l'impostazione generale del suo libro: «Il fallimento fu un gran bene. Man mano che passerà il tempo, il popolo capirà e fruirà l'inestimabile valore dell'Unificazione di tutti gl'Italiani». Sta avvenendo forse il contrario, il popolo del Sud comincia a capire il grande imbroglio che fu la cosiddetta unità d'Italia.
In quegli anni nel Sud due mondi si contrastavano e si combattevano tra loro, quello dei piemontesi invasori che imposero con le armi l'unificazione e quello delle popolazioni meridionali che difendevano la loro terra e se stessi. Due interessanti documenti, scrive il Pichierri, riassumono questo aspro confronto: la relazione letta in seduta segreta nel Parlamento di Torino dal deputato Massari il 3 maggio 1863 ed un articolo pubblicato sulla rivista dei Gesuiti la "Civiltà Cattolica" il 7 novembre 1863.
I piemontesi impegnarono nel Sud 100.000 unità dell'esercito per annientare l'imprevista resistenza dei "briganti". Termine quest'ultimo rivalutato, nel corso dell'articolo, dalla rivista dei gesuiti scrivendolo sempre con l'iniziale maiuscola.
Scrive ancora il Pichierri: «I contadini, quindi, per il niente che si offriva loro presero la tremenda decisione del tanto vivi, tanto morti, organizzandosi sulle alture e nelle boscaglie».
Uno dei capi di questa resistenza armata fu Cosimo Mazzeo, detto Pizzichicchio. Questa seconda parte del libro si apre con un'osservazione sulla foto che comunemente si ritiene essere quella di Pizzichicchio. E' quella che rappresenta un brigante col fez in testa, viso tondo, senza barba. Il Pichierri, dopo aver detto che quella foto su diversi libri viene pubblicata come quella di Pizzichicchio, afferma di ritenere che sia certamente quella di Cosimo Mazzeo. adducendo come testimonianza di tale attribuzione la presenza, sotto questo nome, nella pubblicazione del catalogo della mostra Briganataggio, lealismo e repressione nel Mezzogiorno 1860-1870, allestita a Napoli nel 1984. Ritengo invece sia proprio questa la ragione che documenta l'infondatezza di tale attribuzione. Infatti quella foto viene raccolta insieme a quelle dei briganti della banda di Nicola Masini, scattate tra la fine del 1865 e gli inizi del 1866. Pizzichicchio era stato fucilato nel novembre 1864. Molto probabilmente l'equivoco è dovuto al fatto che nella banda Masini vi era un brigante chiamato Mazzeo C(armine).
Cosimo Mazzeo, nato nel 1837, aveva fatto parte dell'esercito borbonico, dal quale venne congedato nel dicembre 1860. Non era analfabeta. Fu in stretto contatto con la banda del Sergente Romano. Dopo varie azioni vittoriose, la banda Pizzichicchio subì una disfatta il 17 giugno 1863, presso la masseria Belmonte. Il capobanda, che ancora una volta era riuscito a sfuggire alla morte, venne arrestato definitivamente il 4 gennaio 1864. Il Tribunale Militare di Potenza lo condannò a morte mediante fucilazione il 28 novembre 1864.
Il Pichierri scrive: «Cosimo Mazzeo aveva creduto al suo Re Francesco II e lo aveva servito nella guerriglia con impegno e dedizione combattendo, per lui, solo i suoi nemici; lo fece con discernimento, per la giustizia della povera gente e con dignità per aver fatto parte del suo esercito, senza mai macchiarsi di sangue di innocenti estranei alla resistenza, perché non era un delinquente, ma un onesto contadino che non aveva mai avuto a che fare con la Giustizia». Il suo nome non dovrà più essere pronunciato a mezza voce.

Gaetano Pichierri, Resistenza antiunitaria nel Tarantino, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano - Comitato di Taranto, Lacaita Editore, Manduria 1988, pp. 180
 

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