26 dicembre 2013

1861 Pontelandolfo e Casalduni, di Gigi Di Fiore

La prima edizione, ormai esaurita, di questo libro di Gigi Di Fiore fu pubblicata dall’editore Grimaldi di Napoli nel 1998. Ora il libro viene riproposto da Focus Storia. 
     A metà tra saggio e romanzo, viene rievocata la distruzione di Pontelandolfo e Casalduni, due paesi campani, in provincia di Benevento, ad opera dell’esercito piemontese, il 14 agosto 1861. E’ una vicenda, tristemente famosa, legata agli anni del brigantaggio postunitario.
     I briganti furono ribelli che si opposero al nuovo ordine politico sabaudo, imposto con le armi agli abitanti del Regno delle Due Sicilie, senza dichiarazione di guerra. Ma erano anche ribelli alle ingiustizie sociali cui venivano sottoposte le classi soggette ad un secolare sfruttamento economico. I briganti sono stati i veri oppositori alla storia risorgimentale, che tanti danni ha arrecato alla società e alla economia meridionale. Dalla storia ufficiale sono stati considerati criminali, con conseguente giustificazione della repressione armata, con metodi che calpestavano ogni garanzia di diritto.
      Ma in anni più recenti diversi autori (Molfese, Pedìo, De Jaco, Nitti, Scirocco, Topa, Alianello, ecc.) hanno effettuato una lettura più serena e attenta su quelle vicende. I briganti meridionali sono stati partigiani ribelli, che si sono successivamente trasformati in emigranti. Finalità del libro di Di Fiore è quella di raccontare una delle tante storie di quei “vinti”.
      Scrive Di Fiore nella introduzione: “Per almeno due anni, dal 1861 al 1863, molti tra quelli che vennero definiti ‘briganti’ combatterono una loro guerra di Resistenza. Guerra civile contro i soldati ‘piemontesi’ e di classe contro i notabili dell’Italia meridionale. Ansie di riscatto, voglia di terra, fame, disillusione spingevano disperati, ex soldati borbonici sbandati, ex volontari garibaldini, contadini spogliati di fazzoletti di terra, pastori senza più pascoli e sorgenti per le loro greggi, a scatenare la prima guerra civile della nostra storia unitaria, mai abbastanza raccontata”.
      Il libro è una libera rielaborazione delle vicende storiche, ricostruite partendo e lasciando come sfondo un approfondito accertamento su documenti e testi originali. In appendice poi vengono riportati un profilo storico dei personaggi, una cronologia dei fatti narrati, alcuni brani di documenti e testi esaminati, una ricca bibliografia. Intento dichiarato da Di Fiore è quello di carattere divulgativo e non accademico, nel tentativo di incuriosire il lettore non specialistico per spingerlo verso successivi approfondimenti.
      Protagonista del romanzo-saggio è il brigante Pasqualino (nella realtà Ranaudo Pasquale detto Mattone) che si innamora della giovanissima Concetta (Concetta Biondi violentata e uccisa dai piemontesi). Pasquale finirà la sua vita in America, da emigrante.
      La storia d’amore ha come sfondo i tragici fatti che avvennero a Pontelandolfo e Casalduni nell’agosto del 1861. I piemontesi, con la farsa del plebiscito celebratosi il 21 ottobre 1860, camuffarono l’invasione e l’annessione dei territori del Regno delle Due Sicilie. Viene pubblicato dal Piemonte un bando di chiamata alle armi dei giovani del Regno delle Due Sicilie. In molti luoghi questo bando non viene reso noto. I piemontesi eseguono molte fucilazioni dei renitenti alla leva. Cominciano le fughe sulle montagne, alimentate anche dai soldati borbonici sbandati. I piemontesi fucilano meridionali senza nessun processo, distruggono paesi, formano liste di sospetti.
      La popolazione meridionale è ancora dalla parte di Francesco II, ultimo re borbone, anche a Pontelandolfo e Casalduni, ove i briganti capitanati da Cosimo Giordano e Angelo Pica entrano ben accolti dalla popolazione. Il parroco di Pontelandolfo e il sindaco di Casalduni erano di fede borbonica. Dagli uffici pubblici vennero abbattute le insegne sabaude e riposizionate quelle borboniche. Durante la rivolta furono uccisi alcuni “galantuomini” proprietari terrieri, sfruttatori del popolo.
      Le autorità militari piemontesi inviarono degli uomini, al comando del tenente Augusto Bracci, per verificare l’accaduto. Il tenente, non rispettando gli ordini ricevuti di tenersi lontano dai briganti, volle entrare in Casalduni, quasi a sfidarli. Venne ucciso insieme a quaranta suoi soldati.
      La morte di tanti soldati non venne lasciata passare liscia. Doveva essere impartita una solenne lezione a “quei cafoni ribelli”. E fu un massacro di tanti civili innocenti. Il generale Enrico Cialdini, luogotenente del re Vittorio Emanuele, fece inviare quattrocento soldati a Casalduni e cinquecento a Pontelandolfo con l’ordine: “Che di Pontelandolfo e Casalduni non rimanga pietra su pietra”. Fu appiccato il fuoco alle case con ancora molte persone dentro; chi usciva di casa veniva affrontato con le baionette, chi tentava di correre per mettersi al riparo veniva colpito da scariche di fucili. Fu un inferno. Era la legge degli invasori piemontesi: violenze, stupri, saccheggi, uccisioni di innocenti.
      Venne inviato al Comando generale il seguente dispaccio telegrafico: “Giovedì, 15 agosto 1861. Ieri, all’alba, giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni. Essi bruciano ancora”. Quanti furono veramente i morti non si saprà mai. Forse un migliaio. Fu un massacro sul quale pian piano comincia a farsi luce. 

Gigi Di Fiore, 1861 Pontelandolfo e Casalduni. Un massacro dimenticato, Gruner + Jahr/Mondadori, Milano 2013, Edizione di Focus Storia, pp. 192

6 dicembre 2013

I briganti e la corte pontificia, di Emidio Cardinali

Ho finalmente terminata la fatica della lettura dei due volumi di Emidio Cardinali, pubblicati in Livorno dagli Editori Davitti con la data del 1862. Riportando però, alla fine del secondo volume, passi della relazione della Commissione d’inchiesta sul brigantaggio, letta dal deputato Massari nel Parlamento di Torino il 3 maggio 1863 e pubblicata negli Atti parlamentari il 9 agosto dello stesso anno, si suppone che il libro sia stato dato alle stampe alla fine del 1863.
     I briganti presenti nel titolo del libro di Cardinali sono solo un pretesto per scrivere contro il papato (Pio IX) e contro l’ex re delle Due Sicilie (Francesco II). Se si vogliono conoscere un po’ più approfonditamente i fatti del brigantaggio politico e sociale postunitario, anche se dal punto di vista piemontese e unitario, bisogna leggere altro.
     Per conoscere sia da che parte sta il Cardinali e sia il suo stile involuto di difficile lettura, leggiamo un passo del secondo volume, pagina 333: «La stagione dei fiori… nella primavera del 1862… e l’odorato profumo di quell’aere balsamico spirava il contagio mortale della polvere e de’ cadaveri insepolti di assassini bruttamente commisti alle salme benedette de’ martiri italiani immolati dalla ferocia barbarica dell’ultimo Borbone, in lega sacrilega col dominatore di Roma». Dove gli assassini sono i briganti meridionali, i martiri italiani sono i soldati piemontesi, l’ultimo Borbone è Francesco II, il dominatore di Roma è papa Pio IX. Notare anche le aggettivazioni con cui l’autore descrive i quattro protagonisti di quel periodo.
     Da alcuni passi del libro si apprende che Emidio Cardinali è romano, ha studiato nel seminario di Frascati, è stato ufficiale dell’esercito garibaldino, dal settembre 1859 è stato in esilio «balzato dal santuario pacifico dei suoi studi in una vita errante e penosa». Quando ha pubblicato il libro si trovava in esilio a Livorno.
     «Còmpito rigoroso della mia opera è la storia del brigantaggio dalla sua organizzazione presso la corte romana, col corredo di opportune riflessioni politiche», è l’incipit che rivela una lettura molto di parte del fenomeno, quella di un liberale acidamente anticlericale e antiborbonico. E comunque, come già detto, nell’economia generale del libro, al brigantaggio è riservato una spazio marginale, rispetto agli attacchi allo Stato pontificio, alla corte in esilio dell’ex Re delle Due Sicilie Francesco II, alla politica neutrale ed attendista del governo francese di Napoleone III.
     Riporto qui di seguito alcune osservazioni del Cardinali riguardanti il brigantaggio, tralasciando tutti gli altri temi.
     Il brigantaggio è un fenomeno endemico nel Napoletano, che ha infestato quelle provincie fin da remotissimi tempi. Cause ne sono state la configurazione del suolo per buona parte boschivo, la povertà degli abitanti che spingeva alla rapina e alle stragi, il gran numero di chi si trovava in quelle condizioni, la necessità di una gerarchia. «Il brigantaggio si eresse in sistema», scrive il Cardinali, e divenne camorra. Sono concetti ricorrenti in quegli anni, utilizzati per giustificare la repressione spietata ad opera dei piemontesi.
     Francesco II utilizzò e sfruttò i briganti per tentare di ritornare sul trono.
     Di Pontelandolfo e Casalduni il Cardinali, schierandosi apertamente con la ferocia dei piemontesi, scrive: «I due villaggi furono inesorabilmente condannati alle fiamme. Il nome di questi cannibali meritava esser abraso di mezzo al suolo italiano. Crollando le fondamenta de’ loro asili, doveva sperdersi anco la memoria di tanto misfatto».
     Nel libro del Cardinali sono trascritte, in italiano, le carte che il legittimista spagnolo José Borges portava con sé quando venne fucilato dai piemontesi l’8 dicembre 1861: la corrispondenza con il generale Clary, il memoriale, 6 lettere del generale Bosco, 5 lettere di una donna. Parte di questa documentazione era stata pubblicata poco prima da Marc Monnier, «che attesa la piccola mole del suo pregevole opuscolo quasi contemporaneo, poté precorrere la mia pubblicazione», scrive il Cardinali. A proposito del diario di Borges, dice il Cardinali: «Confesso che nel rifarmi più volte a leggere le sue memorie, ho pianto di compassione». Anche per lui le annotazioni di Borges costituivano un atto di accusa contro i briganti, così come i piemontesi avevano interesse a far credere. Anche se poi si contraddice quando afferma: «Egli (Borges) di fronte alla storia non potrà esimersi dal titolo di brigante».
     Contrariamente a quello che il governo piemontese voleva far credere, il Cardinali riteneva che: «Il brigantaggio poteva esser perseguitato, impedito ne’ suoi progressi, intralciato ne’ suoi progetti, ma spento non mai: le cagioni produttrici, dopo la sosta delle dispersioni, gli permettevano di ripullulare ad oltranza». Le cause del brigantaggio non erano estinte nella loro sorgente: la presenza di Francesco II a Roma e il potere temporale del papa che appoggiava e si alleava con il brigantaggio.

Emidio Cardinali, I briganti e la corte pontificia, Napoli 1971, Arturo Berisio Editore, Vol. I (pp. 580), Vol. II (pp. 460), ristampa edizione Editori L. Davitti e C. del 1862