29 gennaio 2014

La trappola. Il vero volto del maggioritario, di Luciano Canfora



I partiti di oggi, e per essi i loro dirigenti, pensano a se stessi e non ai cittadini. A tal fine si inventano sistemi elettorali per cercare di assicurarsi il potere, nascondendosi dietro una parola vuota e ipocrita: la «governabilità», calpestando il principio base del suffragio universale: un uomo/un voto.
     Luciano Canfora, in un libricino di sole 98 pagine, ha sintetizzato le varie forme che questa ricerca è venuta assumendo nel corso degli anni dalla nascita dell’unità ad oggi. Nell’anno 1861 gli aventi diritto al voto furono l’1,9% della popolazione residente, per salire al 2,2% nel 1880 e due anni dopo con la «sinistra» al potere (Depretis) passò al 6,9%. Solo con le prime elezioni post-belliche, quelle del 1919, il suffragio divenne universale, pur sempre però riservato solo ai maschi. Le donne per poter votare dovettero aspettare fino al 1946. Intanto il partito fascista, con la legge Acerbo del 1923, si inventò il «premio di maggioranza» alla coalizione più votata e stravinse le elezioni, aprendo la strada alla dittatura mussoliniana.
     Anche il Partito Comunista Italiano, che nel 1953 aveva lottato contro la «legge truffa» (voluta da democristiani, liberali, socialdemocratici e repubblicani) che prevedeva un consistente premio di maggioranza per la coalizione che avrebbe ottenuto il 50% più un voto, divenuto PDS (oggi PD), si converte dal principio proporzionale a quello maggioritario, sperando di poter «vincere al tavolo da gioco» la battaglia elettorale.
     Dico subito che sono per il proporzionale puro e penso come Canfora che qualsiasi sistema maggioritario è un imbroglio. Si consente a un gruppo di partiti di avere nel Parlamento una rappresentanza superiore a ciò che essi sono nel paese. Il sistema maggioritario porta non alla governabilità ma al disastro, diceva tempo fa un capo dei comunisti italiani.
     Il sistema elettorale proporzionale è l’unico strumento che rispetti il principio del suffragio universale e uguale. La metamorfosi della sinistra italiana dal proporzionale al maggioritario è dovuta al fatto che essa non rappresenta più una «alternativa di sistema», ma si è omologata ad esso. Smaniando per il potere, essendo incapace di far politica, vuol raggiungere il governo con dei trucchi elettorali: è una isterica scorciatoia – scrive Canfora – che copre la sostanziale debolezza e, forse, una certa inettitudine. Il famigerato concetto della «governabilità» è un residuo di una mentalità elitistico-giacobina: una minoranza che si proclama maggioranza.
     Il porcellum dava un osceno premio di maggioranza, il proposto italicum renziano non fa da meno (quando è uscito il libro di Canfora di questultimo ancora non si parlava). Tutte le varietà di leggi di tipo maggioritario non solo attenuano ma addirittura snaturano il principio del suffragio universale. Operare per ripristinare il criterio proporzionale della rappresentanza politica altro non è – scrive ancora Canfora – che lottare per ripristinare il principio del suffragio universale.
     Il sistema proporzionale fa evitare che una forza politica capace di far convogliare su di sé le simpatie degli elettori, ricorrendo a ingenti mezzi propagandistici, possa assicurarsi, grazie ad un «marchingegno» maggioritario, una schiacciante e devastante maggioranza parlamentare, come è avvenuto con il partito-azienda berlusconiano.
     Io nelle ultime elezioni politiche non sono andato a votare. La stessa cosa farò alle prossime. A meno che non sia presente nelle liste un serio partito del Sud, che faccia veramente gli interessi del Sud.
Rocco Biondi

Luciano Canfora, La trappola. Il vero volto del maggioritario, Sellerio editore, Palermo 2013, pp. 101, € 10,00

26 gennaio 2014

Società, politica e banditismo sociale, di Giuseppe Osvaldo Lucera



Lucera ha un modo di scrivere che rende avvincente e accattivante qualsiasi argomento tocca. Specie poi se tali argomenti sono già di per se interessanti, come certamente lo è quello del banditismo sociale, tema del libro che stiamo presentando. Anche perché il banditismo – come appropriatamente afferma Valentino Romano nella prefazione – contrariamente a quanto certa letteratura ricorrente lascia supporre, non è appannaggio esclusivo del Sud d’Italia, ma di tutti i Sud del mondo, cioè di tutte le terre laddove è più acuto il disagio sociale.
     Noi quando inizialmente ci siamo avvicinati al libro cercavamo, piuttosto semplicisticamente, le motivazioni che portarono al brigantaggio, dopo che i piemontesi nel 1860 invasero il Regno delle Due Sicilie. Ma man mano che andavamo avanti nella lettura il quadro si ampliava e diventava sempre più complesso. Lo stesso Lucera ci veniva incontro affermando: “In questo saggio non ci occuperemo, nello specifico, del brigantaggio socio-politico, poiché già oggetto di nostri precedenti lavori editi”. E ci tornava alla mente il suo ponderoso studio sul brigantaggio, in quattro volumi, dal titolo Vicende di un’altra storia.
     Il libro si divide in due parti, la prima studia come nascono e si organizzano le diverse società umane soffermandosi sul ceto della borghesia regolato dalla cosiddetta dottrina liberale, la seconda parte studia il comportamento di alcuni personaggi che si sono opposti al ceto borghese: i banditi sociali. Il periodo storico che viene analizzato è piuttosto ampio, parte dall’anno Mille fino ad arrivare al 1900 (il cosiddetto secolo breve).
     Sorvolo sulla prima parte dove sono riportati “appunti” di Sociologia con particolare approfondimento della civiltà contadina, dove si parla delle tre rivoluzioni borghesi: quella inglese, quella americana, quella francese, dove si approfondiscono le condizioni di coloro che nulla hanno, dove si sintetizzano i pessimi risultati della cosiddetta riforma agraria di Puglia, Lucania e Molise, dove si esaminano le rivolte di massa (ad esempio quella dei Ciompi a Firenze, quella dei pastorelli in Francia, quella della scarpa in Germania, quella degli Hussiti in Boemia, quella degli Ugonotti in Francia, e le quattro insorgenze vandeane nella Francia che si affaccia sulla costa atlantica).
     Cito però una frase, che mi ha fatto sorgere qualche dubbio e che avrebbe bisogno di qualche approfondimento: «le vicende attinenti al brigantaggio non accaddero all’interno di rivolte di massa, ad eccezione di quelle cittadine, ma furono delle vere e proprie azioni di guerriglia armata portate avanti da singoli uomini o gruppi di essi, contro invasori o governi ritenuti stranieri ed oppressivi».
     Il bandito sociale appartiene alla classe dei poveri e dei più deboli, che sono la stragrande maggioranza della popolazione mondiale; per essi lotta contro il capitalismo e la borghesia. La cosiddetta giustizia in pratica difende i nobili e i borghesi, a rimetterci sono sempre i più deboli che non trovano altra strada se non quella di farsi giustizia da soli.
     Il bandito sociale è un uomo solo, che vive senza applausi e senza spettatori, fra monti, boschi, piogge, scontri, agguati, armi, freddo, neve, nascondigli sempre più angusti e sempre più isolati; vive di idealità, che rincorre valori astratti di difficile attuazione; si muove in grandi gruppi o isolatamente a seconda delle epoche e delle circostanze.
     Lucera dalla lunga schiera di questi indomiti ribelli e di questi romantici banditi, da quell’immenso mondo apparentemente scomparso e dimenticato, tira fuori alcuni significativi campioni, vissuti dal medioevo ad oggi.
     Alfonso Piccolomini è uno dei pochi esempi di un appartenente alla nobiltà che scelse la strada della sovversione, schierandosi dalla parte dei più deboli contro le prevaricazioni dei più forti. Nato nel 1558, era conte di Montemarciano nelle Marche, feudatario di Toscana e dello Stato Pontificio. Entrò in contrasto con il papa di allora e costituì una banda di guerrieri con il compito di lottare contro lo Stato Pontificio. La sua strategia di guerrigliero consisteva nell’attaccare le fonti di reddito dirette dello Stato del papa. A Palidoro perse l’ultima sua battaglia contro le truppe pontificie. Catturato, venne impiccato il 16 marzo 1591; aveva 33 anni. Con lui morì – scrive Lucera – il grande sogno di dare dignità ed onore a coloro sui quali l’intera società del tempo si appoggiava per vivere, sfruttandoli.
     Marco Sciarra, che da semplice pastore divenne un nemico implacabile degli spagnoli e dei papi, veniva definito, ai suoi tempi, flagello di Dio, e inviato da Dio contro gli usurai e quelli che posseggono denaro improduttivo. Nato in Abruzzo intorno al 1550, nel periodo di maggior splendore ebbe sotto il suo comando un migliaio di uomini e riuscì a ritagliarsi, all’interno dei possedimenti del viceré spagnolo di Napoli e dello Stato Pontificio, un piccolo regno al quale diede un’organizzazione di tipo statale, dove non esisteva la grande proprietà terriera avendo distribuita la terra ai contadini che la lavoravano, né si pagavano tasse. Considerava il potere temporale dei papi come la negazione di Dio sulla terra e il loro sfarzo come un’offesa alla povertà di tanta gente. La sua banda di guerriglieri, che rubava ai ricchi per distribuire ai poveri, incuteva paura e timore. Il campo d’azione fu molto esteso, oltre che al suo Abruzzo, si estendeva anche alle Marche, al Lazio, alla Campania, alla Puglia. Il mondo contadino lo definì Il Re della Montagna. Fu ucciso a tradimento dal suo luogotenente Battistello da Fermo. Per il suo tempo, Sciarra fu senz’altro un rivoluzionario e persino un politico.
     Venendo più vicino ai giorni nostri Lucera include fra i banditi sociali Domenico Tiburzi, detto Il Brigante della Maremma. Nato nel 1836 a Cellere, nell’alto Lazio, ebbe la fortuna di non vivere nelle regioni in cui il brigantaggio veniva combattuto a colpi di leggi eccezionali, dove i Tribunali Militari di Guerra emettevano sentenze di morte mediante fucilazioni immediate e repentine. Era un pastore e buttero, divenne una specie di Robin Hood della sua Maremma grossetana inventandosi perfino la tassa del brigantaggio che faceva pagare ai ricchi della zona in cambio della sua protezione. Aborriva la violenza e cercava di non uccidere i carabinieri poiché figli di uomini poveri e costretti ad arruolarsi per fame. Venne ucciso dai carabinieri il 24 ottobre 1896, all’età di 60 anni. Il suo cadavere fu vestito di tutto punto da brigante e fu legato a un palo, per potergli scattare la foto da conservare negli archivi militari.
     Lucera fa poi una capatina nel Nord Est del Brasile dove è vissuto fino al 1938 il più famoso, il più temerario e il più amato bandito sociale della zona: Virgulino Ferreira da Silva, detto Lampiao, che non era nato violento, era stato costretto a diventarlo. La popolazione lo chiamava Re del cangaço e Governatore del sertao. Lampiao venne ucciso insieme alla sua donna Maria Bonita, divenuta anch’essa una famosa cangaceira. Le loro teste furono esposte al pubblico per circa trent’anni a Salvador de Bahia.
     Il libro si chiude con cenni biografici dei banditi sociali Giuseppe Musolino: Il Re dell’Aspromonte, Salvatore Giuliano: Il Re di Montelepre, Graziano Mesina (Grazianeddu): Il Re di Supramonte.
     Nel libro di Lucera merito una citazione in nota (Rocco Biondi, da Villa Castelli) per una recensione che ho fatta nel mio blog del libro di Nicola Misasi Briganteide.
     Nelle conclusioni del libro i banditi sociali vengono definiti come «Uomini che hanno saputo accendere la fantasia, la leggenda, il destino fatalistico e ristoratore di una giustizia non divina ma terrena, feroce e crudele quanto si vuole, ma vista come raddrizzatrice dei torti subiti». Uomini rivoluzionari che oggi secondo Hobsbawm o stanno studiando o stanno dormendo oppure si stanno organizzando, e che per Lucera e noi certamente torneranno sotto nuove forme e prenderanno il posto degli antichi banditi e briganti, e questa volta forse vinceranno.
Rocco Biondi

Giuseppe Osvaldo Lucera, Società, politica e banditismo sociale. Dalle medievali rivolte contadine a “Grazianeddu”, Youcanprint, Tricase (LE) 2013, pp. 470, € 23,00