29 dicembre 2015

Il Brigantaggio nell’Italia meridionale dal 1860 al 1870, di Michele Cianciulli



E’ un libro pubblicato nel 1937, quando gli studi sul brigantaggio erano quasi tutti scritti dalla parte piemontese, della quale esaltavano l’intervento nel Mezzogiorno per “unificare l’Italia”. Il Cianciulli si inserisce a pieno titolo in quel filone. Scrive infatti: «Chiavone, i La Gala, Crocco ecc. minacciano col terrore di ostacolare il moto unitario del nostro Risorgimento». Però il Cianciulli scrive anche che nell’Italia meridionale vivono le genti forse migliori del mediterraneo, intelligenti, sobrie, lavoratrici, piene di buon senso e di equilibrio, in apparenza un po’ scettiche, ma in realtà profondamente sensibili ed attaccate ai grandi ideali. Solo dominazioni straniere e cattivi governi avevano chiuso le popolazioni in un cerchio d’ingiustizia, di miseria, d’ignoranza, di superstizione e di servilismo. Ma ciò nonostante mai i meridionali perdettero la naturale forza e l’esuberanza vitale, che diede vita al brigantaggio che fu protesta violenta e brutale, ribellione istintiva ad un sistema iniquo ed infelice.
     Viene fatto un excursus del brigantaggio, che sempre ha accompagnato o seguito le rivoluzioni, dalla preistoria al decennio postunitario. E la responsabilità di questo fenomeno di delinquenza collettiva (così lo definisce il Cianciulli) va ricercata in alto, nelle classi dirigenti, e non in basso, tra le masse. Dopo il 1860 si sconvolsero e si rovesciarono gli antichi ordinamenti statali, ma non se ne costruirono subito degli altri in sostituzione. E da parte delle nuove autorità piemontesi furono commessi non pochi errori, che si trasformarono in altrettante cause di brigantaggio.
     Il brigantaggio meridionale postunitario – scrive il Cianciulli – ha un intimo nesso storico ed una perfetta analogia col brigantaggio del 1799 e del decennio dei regni di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat. Nel 1799 l’armata della Santa Fede, comandata dal cardinal Ruffo, sorretta da Inglesi, Russi e Turchi, composta principalmente da briganti, restaurò la monarchia borbonica. Nel 1860 il re Borbone Francesco II cercò di impiegare la stessa politica, ma non riuscì a riconquistare il Regno.
     Il brigantaggio – secondo il Cianciulli – era per l’Italia meridionale una tradizione. Nel brigante si vedeva una figura di eroe e di giustiziere, che applicava una gloriosa e legittima resistenza armata contro chi tiranneggia il povero e gli oppressi. Il popolo non solo non lo malediceva ma lo aiutava nelle sue imprese. Brigante non era un appellativo d’infamia, ma un titolo di lode e di vanto. Le madri chiamavano orgogliosamente e affettuosamente il proprio figlio «brigantiello mio». Nessuna meraviglia se accanto al brigantaggio fioriva abbondantemente il manutengolismo. Il manutengolo era il silenzioso difensore, l’occulto protettore ed informatore del brigante.
     Vengono poi elencate le cause remote e prossime del brigantaggio postunitario, in sostanza però sintetizzando la relazione Massari (scrive il Cianciulli: «dopo l’esaurientissimo e definitivo studio del Massari nella relazione alla Camera dei Deputati nel maggio del 1863, ben poco di nuovo è permesso di dire a noi e, anche, agli altri». Molto però e di diverso è stato scritto dopo il Cianciulli su dette cause.
     Fra le cause remote del brigantaggio il Cianciulli (fra parentesi è riportato il suo pensiero) elenca: le condizioni economiche (miseria), il sistema economico borbonico (che è ritenuto un brigantaggio permanente), antagonismo tra le classi, tradizione brigantesca (il brigantaggio era abituale ed endemico; i Borbone, passando sopra ogni legge morale, osarono scegliere come loro cooperatori i briganti), condizioni topografiche e conformazione geologica. Le cause prossime del brigantaggio (sempre per il Cianciulli) furono: comportamento dei Borbone diretto a turbare la pace nelle province meridionali, l’evasione voluta dai Borbone di galeotti dalle carceri, prepotenze rimaste impunite, ambizioni, vendette, destituzione di impiegati borbonici, leggi contro il clero, reciproca incomprensione psicologica tra piemontesi e napoletani, repressione esagerata, gravose e impopolari tasse imposte dal governo di Torino, crisi improvvisa dell’economia meridionale a vantaggio delle industrie settentrionali, antipatia contro la nuova legge del reclutamento militare.
     Scrive però ancora il Cianciulli: «L’errore maggiore di Torino consisteva nel fatto di mandare dall’alta Italia dei funzionari, che avevano l’incarico o la pretesa di “moralizzare” Napoli, mentre riuscivano solamente a far prendere in uggia se stessi ed a suscitare critiche contro il governo che li mandava».
     Vengono poi narrati i fatti, sempre dall’ottica piemontese, dei comitati borbonici (i più importanti erano quelli di Roma e Napoli, il primo era presieduto da Francesco di Paola, Conte di Trapani, il secondo dal barone Achille Cosenza) e dell’atteggiamento del governo di Roma di fronte al brigantaggio (a Roma il brigantaggio veniva alimentato moralmente e materialmente).
     Molti legittimisti stranieri (“avventurieri stranieri a servizio dei Borboni”, li chiama il Cianciulli) vennero a Roma e nel Sud, nel tentativo di riportare Francesco II sul trono del Regno delle Due Sicilie. Fra essi vi furono il francese Henri de Cathelineau, l’austriaco Zimmermann, il tedesco Edwin Kalckreuth (fucilato dai piemontesi nel 1862), il belga Alfredo de Trazégnies (fucilato dai piemontesi nel 1861), Emilio Teodoro de Christen, Augustin Langlais, Klitsche de Lagrange, Carlo di Goyon (generale comandante le truppe francesi a Roma), lo spagnolo Don José Borges (fucilato dai piemontesi a Tagliacozzo l’8 dicembre 1861), Rafael Tristany (fece fucilare Chiavone).
     Fra i briganti citati nel libro si hanno Luigi Alonzi, Domenico Coia, Francesco Piazza, Luigi Muraca, i fratelli Cipriano e Giona La Gala, Michele Caruso, Carmine Crocco, Giuseppe Nicola Summa, Luca Pastore, Pasquale Romano, ecc.
     Il libro si chiude con un capitolo sulla repressione del brigantaggio. «Il governo italiano – scrive il Cianciulli – da principio non diede importanza al brigantaggio, sia perché non bene informato sulla gravità e complessità di questo doloroso fenomeno politico e sociale, sia perché quando nel Parlamento qualche meridionale si faceva a chiedere dei rimedi, la maggioranza si affrettava a stendere un velo pietoso su quella piaga domestica».
     Michele Cianciulli (Montella, 1895 – Roma, 1965) è stato un avvocato italiano e poi assistente all´università di Roma "La Sapienza", insegnava filosofia. Antifascista. È stato anche responsabile del Grande Oriente di Italia negli anni 1950-1955.

Michele Cianciulli, Il Brigantaggio nell’Italia meridionale dal 1860 al 1870, Officine Grafiche Mantero, Tivoli 1937, pp. 204

16 dicembre 2015

Il Brigantaggio nell’Abruzzo Peligno e nell’alto Sangro 1860-1870, di Luigi Torres



Il libro è utile solamente per conoscere briganti e luoghi in cui essi operarono, in una parte specifica degli Abruzzi. Non si può, né si deve, accettare la filosofia che sottende l’intero libro: l’equiparazione del brigantaggio alla mafia. Scrive il Torres: «Tra l’uno e l’altro movimento di protesta, visto sotto l’aspetto temporale, l’unico cambiamento riscontrato è quello dell’etichetta, pur se nel suo significato è rimasto sostanzialmente identico. Il brigantaggio è da considerarsi una calamità sempre attuale, che rivive non appena si allenta la morsa persecutoria da parte delle forze governative».
     Noi invece riteniamo che i briganti sono stati, anche se spesso inconsapevolmente, insorgenti e partigiani che hanno lottato in difesa della loro terra, delle loro famiglie, della loro dignità. Altrimenti non si spiega perché le bande brigantesche, operanti nel disciolto Regno delle Due Sicilie, raggiunsero una forza complessiva di trentamila uomini, come lo stesso Torres ammette. Senza tener conto delle forze ausiliarie (favoreggiatori o manutengoli) che si schierarono con esse. Il brigantaggio post unitario è durato tanto tempo, tenendo testa ad una grande forza repressiva, perché la popolazione meridionale si schierò con esso.
     Per le popolazioni il brigante era considerato un giustiziere, quasi un eroe, riparatore dei torti e vendicatore dei deboli e dei poveri contro l’arroganza dei potenti e dei ricchi, tanto da accattivarsi ed accrescere le simpatie popolari, scrive ancora Torres. Anche se aggiunge più avanti: «Crediamo opportuno, però, in questa sede confermare l’opinione comune secondo la quale di grandi briganti o galantuomini ce ne siano stati molto pochi; fors’anche sarà esistito qualcuno in Abruzzo, certamente nessuno nella Conca Peligna e nell’Alto Sangro». Ovviamente non possiamo concordare con lui.
     L’Abruzzo Peligno comprende un largo fondovalle di circa cento kmq ed abbraccia quasi tutto il territorio di Sulmona, di Popoli e di Pratola Peligna e parte del territorio di Castelvecchio Subequo, a pochi passi dalla Marsica e ai confini dello Stato Pontificio. Oggi tutti questi paesi (eccetto Popoli che appartiene alla provincia di Pescara) fanno parte della provincia dell’Aquila. Il Sangro è un fiume che bagna l'Abruzzo meridionale e il Molise. La Marsica comprende trentasette comuni della provincia dell'Aquila.
     La Conca Peligna, con le sue grotte naturali e la fittissima vegetazione, fu un ambiente ideale e sicuro per i briganti. Le truppe regolari piemontesi invece, armate ed equipaggiate di tutto punto, riuscivano con molta difficoltà a perlustrare quelle fittissime ed estesissime boscaglie.
     Il Torres, che sostanzialmente ritiene il brigantaggio un movimento puramente delinquenziale, sostiene che esso sia sempre esistito e si sia sviluppato maggiormente nei periodi di cambiamenti politici. Scrive: «Ogni qualvolta si affacciava un nuovo dominatore, proclamandosi liberatore dalle insane voglie del suo predecessore, veniva immancabilmente, almeno nei primi tempi, accolto dal popolo infelice e ormai logorato, come un nuovo usurpatore dal quale aspettarsi nuovi soprusi, nuovi sfruttamenti e nuove violazioni. Ed ecco che gli abitanti di quelle terre insorgevano, dimostrandosi sostenitori del regime soggiogato, assumendo atteggiamenti decisamente ostili nei riguardi dell’instaurando governo».
     La stessa cosa avvenne, secondo Torres, con i piemontesi che subentrarono ai Borbone. Vengono richiamati nel libro gli episodi salienti che caratterizzarono il brigantaggio post-unitario nei dieci anni che vanno dal 1860 al 1870, coincidenti con il disfacimento del regime borbonico, l’avvento nel Sud di quello piemontese e l’esodo di massa verso il nord della penisola e le Americhe.
     Viene descritto piuttosto dettagliatamente l’operato delle bande brigantesche operanti nell’Abruzzo Peligno e la relativa repressione ad opera dell’esercito piemontese. Il numero delle bande cresceva a dismisura ed il governo piemontese ricorse all’emanazione di leggi speciali (cosiddette leggi Pica e Peruzzi). Le bande ponevano in atto le tecniche della guerriglia, alle quali l’esercito piemontese, organizzato in modo tradizionale, non era in grado di rispondere. La guerra di bande – scrive il Torres – è per definizione una guerra particolare fatta soprattutto di intuito, d’improvvisazione e di rapidità di movimento. Fanteria e cavalleria piemontese non erano attrezzate per combattere la controguerriglia; una qualche efficacia nella repressione l’ebbero i Bersaglieri. Nel tempo però l’esercito subì sostanziali modifiche per adattarsi alla guerriglia brigantesca.
     Elenco qui rapidamente le varie bande descritte nel libro. La banda dei sulmonesi fu capeggiate da Felice e Giuseppe Marinucci, e da Antonio La Vella (detto Scipione). La banda della Maiella, che si sviluppò nel tenimento di Pacentro, ebbe come capo Pasquale Mancini, detto il Mercante, che morì in combattimento sotto il piombo delle truppe piemontesi nel 1862; detta banda subirà nel tempo frequenti frazionamenti con conseguenti avvicendamenti nel comando: nel versante orientale della Maiella operarono Salvatore Scenna (catturato nel 1864 e condannato a morte) e Domenico Di Sciascio (ucciso nel 1866), in quello occidentale Nicola Marino (arrestato nel 1868 e condannato ai lavori forzati a vita). La banda formata da paesani di Introdacqua, in provincia dell’Aquila, della quale furono capi Giuseppe Tamburrini soprannominato Colaizzo, Concezio Ventresca noto come Liborio, Pasquale Fontanarosa e Pasquale Del Monaco. La banda Crocitto, che prende il nome dal capobrigante Luigi Croce Di Tola, nato a Roccaraso nel 1838, operò fino al 1871 quando il Di Tola fu preso e condannato. Altre bande di briganti di cui si parla nel libro sono quelle di Nunzio Tamburrini, di Luca Pastore (fucilato dai piemontesi insieme a tre dei suoi compagni), di Fabiano Marcucci detto Primiano (morì in un ospizio dei vecchi nel 1918 dopo essere stato in carcere per quarantacinque anni), di Domenico Valerio detto Cannone (condannato ai lavori forzati a vita), di Domenico Fuoco (venne trovato ucciso nella notte dal 17 al 18 agosto 1870).
     Un capitolo a parte è dedicato alle brigantesse che divennero, da casalinghe, protagoniste combattive ed eroiche. Cito qualche nome: Caterina Marinucci (moglie di Salvatore Scenna), Maria Vincenzina Marsilio, Maria Domenica Como, Angela Di Martino, Maria Suriani. Delle brigantesse scrive il Torres: «Alla fine, nonostante tutto, al cospetto delle leggi e di manu militari, esse furono costrette a soccombere con l’essere gettate in prigioni umide e fetide, talvolta senza prove e senza rispetto, solo perché sospettate di essere confidenti dei briganti, talantra abbattute come selvaggina nociva, con scariche di fucileria, perché sorprese con l’arma in pugno che avevano appena imparato ad usare al posto del fuso e del fasciatoio». Come si vede l’autore ha simpatia per le brigantesse, anzi ritiene che sia stato il movimento unitario a far amare sempre meno la donna.
     Molto ricca è, in appendice, la trascrizione e la riproduzione di documenti d’archivio.
     Luigi Torres è nato nel 1941 a Casarano (Lecce), è stato Generale dell’Esercito italiano, è vissuto per molti anni a Sulmona (provincia dell'Aquila in Abruzzo).
Rocco Biondi

Luigi Torres, Il Brigantaggio nell’Abruzzo Peligno e nell’Alto Sangro 1860-1870, Muscente Majell, Alessandria 2003, pp. 416

26 novembre 2015

Viva ’o Rre, di Orazio Ferrara

Libro piacevole, che si legge rapidamente quasi tutto d’un fiato.
     Il Re di cui si parla è Francesco II, ultimo re del Regno delle Due Sicilie.
     E’ un libro che si schiera, a detta dello stesso autore, dalla parte filo-borbonica, pur rispettando scrupolosamente la verità storica, anche per la naturale inclinazione dell’autore a schierarsi sempre dalla parte dei vinti e dei perdenti. I Borbonici vengono considerati dalla storiografia ufficiale “negazione del diritto delle genti”, vigliacchi che scappano davanti a pochi eroici garibaldini, autori di tutti i mali che affliggono il Meridione. La verità è altra.
     Il libro, che nel suo nucleo centrale raccoglie i capitoli di un libro edito nel 1997, conserva l’impianto originario di agile pamphlet. I piemontesi, e inizialmente per loro Garibaldi, sono stati degli invasori che hanno annesso i territori appartenenti al Regno delle Due Sicilie. Vengono ora aggiunti, in questa edizione, due articoli di Pietro Chevalier, pubblicati da “La Civiltà Cattolica” nel giugno 1902, in cui si svelano “gli squallidi e meschini retroscena di come fu fatta l’Unità d’Italia e dei personaggi che si piccarono di farla, personaggi spesso da operetta e qualche volta anche un po’ cialtroni”. Chevalier era un diplomatico e patriota italiano, uomo di fiducia di Cavour che lo mandò a Napoli come diplomatico presso la corte dei Borbone negli anni decisivi 1859-1860.
     Orazio Ferrara, che negli anni Settanta appartiene al gruppo di giovani della destra estrema ed ha come punti di riferimento gli studi di Carlo Alianello e Silvio Vitale, maturò una forte identità meridionale. E queste radici squisitamente intellettuali, politiche o ideologiche, erano corroborate dall’avere la madre siciliana e il padre napoletano. Nato a Pantelleria, è vissuto per molti anni a Sarno in provincia di Salerno in Campania.
     Il libro si apre con il capitolo intitolato “Il Sud liberato”, dove le parole libertà e giustizia sono scritte sulla punta delle baionette dei soldati piemontesi, che pretendono che tutta l’Italia diventi Piemonte. Il Sud viene “liberato dalla tirannia dei Borbone” con il saccheggio e la rapina. Il capitale monetario del regno napoletano rapinato ammontava a più del doppio degli altri Stati italiani messi insieme. E si procede anche allo smantellamento sistematico dei cantieri navali napoletani, delle fiorenti industrie, dell’artigianato, del commercio, dell’agricoltura. Il Sud viene ridotto alla fame. Ma non basta, viene disintegrato completamente con la leva obbligatoria, il carico fiscale pesante, la burocrazia farraginosa e oppressiva, la mortificazione delle proprie tradizioni.
     E il Sud si ribella con il brigantaggio. Il Ferrara però usa il termine brigante solo nel senso negativo voluto dai piemontesi invasori, noi invece lo usiamo solo ed esclusivamente nell’accezione positiva di patrioti che difendono la loro terra e la loro patria. Dopo la sconfitta del brigantaggio, ai meridionali non resta che l’emigrazione, che dura fino ai giorni nostri.
     Nel 1860 la battaglia di Calatafimi, in Sicilia, non doveva assolutamente essere vinta dai soldati borbonici contro quelli di Garibaldi, secondo quanto era già stato stabilito da occulti poteri sovranazionali (leggi massoneria inglese e italiana). A questo fine molti comandanti e generali napoletani, a cominciare da Francesco Landi, erano stati comprati. I semplici soldati napoletani invece non riuscirono a nascondere la loro rabbiosa amarezza di chi si è visto tradito. Molti di loro crearono e accrebbero le bande brigantesche che per un decennio diedero filo da torcere all’esercito italiano, mandato per oltre la metà a reprimerle.
     I capi delle bande infatti (Pizzichicchio, Cicquagna, Pirichillo, Coppa, Pilone, Romano, Chiavone, Crocco, ecc.) provengono quasi tutti dai quadri del disciolto esercito borbonico. Nelle bande brigantesche vi è una rigida disciplina pari a quella militare. Le razzie, i saccheggi, le uccisioni e i sequestri rispondono alle tragiche e ineludibili necessità della guerriglia e dell’autofinanziamento. Il segreto del successo dei briganti per così lungo tempo sta nella perfetta conoscenza del terreno, nella straordinaria mobilità e nella copertura avuta dalle popolazioni locali; ma anche nella fede: accanto alla bianca bandiera gigliata sventolano anche i colorati stendardi dei santi protettori e di bellissime Madonne.
     I piemontesi ebbero ragione dei briganti usando l’inganno e le fucilazioni sommarie, senza processo e difesa. La vulgata nazionale insegnata per decenni nelle scuole fa acqua da tutte le parti. Una folta schiera di studiosi sta rivisitando la nostra storia patria, senza temere gli anatemi di revisionismo, lanciati dalle mummificate vestali di una vulgata storica nazionale, “ormai buona solo per i gonzi”.
     Dal Ferrara una sopravvalutazione viene fatta dandogli una valenza troppo positiva, secondo noi, della figura del legittimista catalano Rafael Tristany, che tra l’altro fece uccidere il capobanda sorano Luigi Alonzi, detto Chiavone.
     Merito del libro del Ferrara è l’aver messo in luce fatti briganteschi poco noti. A cominciare dall’operato del brigante sarnese Orazio Cioffi, che «si mostrava generoso con i deboli, gentile con le donne, pietoso con i poveri; e in grazia di questo contava numerose simpatie in campagna e in città».
     Altri fatti che escono dal cono d’ombra, nella quale sono stati relegati dalla storia ufficiale, sono quelli legati alla banda Ribera. Operarono, con altri uomini, nella siciliana isola di Pantelleria, che allora era controllata al centro dai reparti sabaudi, e per il resto era nelle mani dei filo-borbonici. Per reprimere questa situazione fu mandato nell’isola un colonnello a capo di un reggimento di fanteria. Per il tradimento di una spia locale i ribelli furono intercettati in una vasta e profonda caverna. Dei quattro fratelli Ribera tre furono condannati dai piemontesi all’impiccagione: Giuseppe, Agostino e Pietro; mentre Giovanni riuscirà ad espatriare nelle Americhe. Ancora oggi quella Grotta dei Briganti, a ricordo del sogno infranto dei legittimisti panteschi, viene visitata da tanti turisti.
     Altro capobanda del quale si parla diffusamente nel libro è Antonio Cozzolino, detto Pilone. Nacque a Torre Annunziata (Napoli), ma sin da piccolo tornò con la famiglia a Boscotrecase da dove provenivano. Nell’esercito napoletano aveva raggiunto il grado di sergente maggiore. Con la sua banda, che riesce a contare una quarantina di unità, riporta diverse vittorie contro i piemontesi, anche spettacolari, ma per sopravvivere esegue anche estorsioni e sequestri. Non è sanguinario, né assassino a sangue freddo. Inafferrabile, il 14 ottobre 1870 viene colpito a morte con varie pugnalate alle spalle perché tradito. Ma egli, conclude il suo libro il Ferrara, «non è affatto morto, continua a cavalcare all’infinito per le strade della nostra terra, cui è sentinella il Vesuvio, e nel cuore di chi non ha dimenticato. Sempre.»
Rocco Biondi

Orazio Ferrara, Viva ’o Rre. Dalla conquista del Sud alla guerra per bande, Capone Editore, Cavallino (Lecce) 2015, pp. 136, € 13,00