27 ottobre 2015

“Carta, calamaio e penna”, di Nicola De Blasi



Michele di Gè di Rionero, accusato per un sequestro di persona, fu processato nel 1869 e condannato all’ergastolo. Fu però scarcerato nel 1893 per uno sconto di pena accordato in forza del nuovo ordinamento penale. Imparò in galera a leggere e scrivere. Molti anni dopo il suo ritorno a casa, tra il novembre 1910 e l’aprile 1911, si dedicò alla stesura di un’autobiografia “per restare un ricordo” alla sua famiglia e ai cittadini di Rionero. Il Di Gè, nato a Rionero in Vulture il 24 dicembre 1843, è morto nel 1924. E’ stato uno dei pochi in grado di narrare le proprie vicende, avendo avuto la doppia rara ventura di restare vivo dopo la sua vita alla macchia e di uscire vivo di prigione, scrive il De Blasi.
     Una copia della prima stampa del testo giunse a Giustino Fortunato, che nello stesso 1911 lo fece ristampare, mentre avviava con Gaetano Salvemini il progetto della sua pubblicazione sulla rivista specializzata “Lares”, cosa che avvenne nel 1914. Non si è mai riusciti però a risalire al manoscritto autografo.
     L’edizione curata dal Salvemini per “Lares” porta discreti ma decisivi interventi che avvicinano la scrittura del Di Gè alla lingua scritta normalmente accettata come corretta. La stampa del 1911 presenta invece una lingua che, nonostante i possibili ritocchi del tipografo, conserva tutte le caratteristiche dell’italiano popolare. Il volume, scritto dal De Blasi, porta all’inizio la ristampa del testo pubblicato nel 1911 a Melfi dall’Insabato (per un totale di 47 pagine).
     L’autobiografia del Di Gè non è il frutto di un’esposizione casuale ma è un racconto organizzato. L’ex brigante racconta i fatti con una sequenza e una selezione meditate, cosa che induce a numerose reticenze. Come nota il Salvemini, non racconta tutto quello che sa, di quasi tutti i suoi compagni tace i nomi, evita ogni designazione topografica o cronologica precisa, delle imprese a cui ha partecipato ne racconta una sola: il sequestro del settembre 1866 perché questo dette luogo a un processo e a una condanna. L’attenta selezione degli eventi da narrare è visibile anche nella cautela con cui presenta ogni episodio che potrebbe configurarsi come reato.
     L’autobiografia è quindi condotta costantemente sulla difensiva. Il testo è tutt’altro che un’accozzaglia occasionale di episodi narrati disordinatamente, esso nella sua coerenza è un intreccio tra sventura, male e bene, che sono significativamente rievocati nella chiusa: «Questo è il libro della sventura, e chi vuole sentire il vero qui ci è il male ed il bene».
     L’analisi che il De Blasi fa del testo non riguarda il contenuto, ma la forma linguistica che in esso viene usata. Vengono enucleati la storia del testo, edizioni e varianti, la lingua, il lessico, la cultura orale nella sua concretezza e tradizioni.
     Il Di Gè fu chiamato per il servizio militare nell’esercito italiano nel 1863, ma riuscì a non partire come soldato e lavorò con il padre come pastore a Lavello. Si sposò nel 1864. Si diede al brigantaggio agli inizi del 1866 ed entrò prima nella banda di Giacomo Parri e Carmine Meula e poi in quella di Luigi Cerino. Si costituì alle autorità l'8 dicembre 1866.
     In carcere sfregiò al volto con un piatto il capo lavorante, che era veneziano, perché aveva affermato che nello Stato napolitano erano tutti briganti, camorristi, magnacci, bambocci.
     Nicola De Blasi quando nel 1991 pubblicò il libro sul brigante Di Gè era professore associato di Storia della lingua italiana presso l’Università della Basilicata.
Rocco Biondi

Nicola De Blasi, “Carta, calamaio e penna”. Lingua e cultura nella Vita del brigante Di Gè, Casa Editrice Il Salice, Potenza 1911, pp. 168

6 ottobre 2015

Ciccilla, di Peppino Curcio



Giordano Bruno Guerri, autore de Il sangue del Sud” e “Il bosco nel cuore”, nella introduzione ha scritto che con questo libro un altro tassello della storia nazionale è finalmente al suo posto e da qui dovranno partire tutti gli ulteriori studi e approfondimenti sull’argomento.
     Nel libro le vicende della brigantessa Maria Oliverio, soprannominata Ciccilla, sono strettamente legate a quelle del marito, il capobrigante Pietro Monaco.
     Una qualche contraddizione si riscontra nella valutazione che il Curcio dà del brigantaggio in genere e del Monaco in particolare. Prima infatti (pagina 35) afferma che Monaco non è un delinquente ma un bandito sociale che per due anni ha dato filo da torcere alla causa dell’unità d’Italia, e poi (pagine 178-179) scrive che, almeno per quanto riguarda il brigante Monaco, non si può parlare di guerra civile tra i piemontesi invasori e i briganti; le ribellioni di questi ultimi non avrebbero assunto un carattere di massa come quelle dei contadini per il diritto agli usi civici delle terre. Il Curcio quindi pare schierarsi dalla parte del Risorgimento; afferma infatti (pagina 17) che la classe contadina meridionale è stata parte dell’Italia Unita.
     Maria Oliverio nacque a Casole Bruzio, provincia di Cosenza in Calabria, il 30 agosto 1841. Il padre era bracciante, la madre filatrice.
     Pietro Monaco nacque a Macchia, frazione di Spezzano Piccolo (provincia di Cosenza), il 2 giugno 1836. Il padre era un massaro non ricco, che poté permettersi di dare un’istruzione ai figli. Pietro infatti sapeva leggere e scrivere.
     Pietro e Maria si sposarono quando lei aveva diciassette anni. Il rapporto fra di loro fu piuttosto difficile, sia a causa del carattere violento ed impulsivo di lui, sia perché Pietro tradiva la moglie con Teresa, sorella di Maria.
     Il 1859 Pietro si arruolò nell’esercito borbonico. Successivamente passa a combattere per Garibaldi. Agli inizi del 1861 viene richiamato a fare il militare, questa volta sotto i Savoia. Il Monaco rifiuta e si dà alla macchia, divenendo disertore e nemico dei piemontesi.
     Maria fu sottoposta a varie persecuzioni al fine di costringere il marito a costituirsi. Il 27 maggio 1862 segnò il tragico inizio della vita brigantesca di Maria Oliverio, dopo aver ucciso la sorella Teresa con quarantotto colpi di scure. Nel processo tutti i testimoni affermano che Maria era di indole buona. Solo la gelosia l’aveva spinta a quell’atroce delitto.
     Curcio avanza l’ipotesi che Pietro Monaco avesse probabili legami con i piemontesi. Si inserisce in questi legami l’uccisione del capobrigante Leonardo Bonaro, vicino alle posizioni dello spagnolo Borges e dei Borbone. Secondo queste ipotesi Monaco non sarebbe filoborbonico.
     Maria Oliverio fu coinvolta in prima persona in tutte le imprese brigantesche di cui Pietro Monaco fu protagonista. Maria però non tollerava le violenze verso le vittime dei sequestri.
     Un sequestro particolare avvenne ad opera della banda Monaco nell’ottobre 1862. Ne furono vittime una neonata di appena un anno, la nutrice che la stava allattando e il marito di quest’ultima. La bimba era figlia di Alfonso Gullo. Seri dubbi si nutrono sull’eccessiva insistenza con la quale il Gullo ribadisce di non aver pagato i seimila ducati richiesti dal Monaco per il rilascio. La famiglia Gullo rimarrà profondamente provata da questa vicenda, con conseguenze che si potrebbero dire positive in un discendente: Fausto Gullo che, diventato Ministro dell’agricoltura nel 1944, concesse davvero le terre ai contadini.
     Un sequestro che Curcio definisce di simboli più che di persone è quello effettuato il 30 agosto 1863 in Acri, provincia di Cosenza, a fine di riscatto. Ne furono vittime nove persone, tra le quali Mons. Filippo Maria De Simone, Vescovo di Tropea, che insieme ad altri tre anziani fu liberato il giorno successivo. Uno dei rapiti fu ucciso; in quel caso Maria fu vista piangere.
     Intanto il 15 agosto 1865 fu approvata la legge Pica, che, oltre ad affidare i processi ai Tribunali Militari e ad istituire la pena di morte per i reati di brigantaggio, invitava i briganti alla costituzione volontaria e a fornire aiuti di ogni maniera, promettendo la riduzione della pena. Approfittando di questa promessa, due briganti della stessa banda Monaco lo uccisero a fucilate. I due uccisori De Marco e Celestino avevano commesso più reati di Pietro Monaco.
     Maria Oliverio fu arrestata dai piemontesi il 10 febbraio 1864, tradita da un brigante che rivelò il suo rifugio. Il processo si svolse presso il tribunale di Catanzaro, dove pervennero tutti i documenti dei trentadue processi nei quali Maria Oliverio era stata imputata. Venne condannata a morte; le accuse si ridussero a cinque più che sufficienti per una condanna capitale. Questa condanna fu poi commutata nei lavori forzati a vita. La Oliverio forse morì nel carcere di Fenestrelle, vicino Torino, alcuni anni dopo.
     Peppino Curcio nel narrare i fatti della vita di Ciccilla, oltre a tener conto delle trascrizioni degli interventi nei tribunali, si rifà anche alla tradizione orale. Molto ricca, forse troppa, è la documentazione riportata nel libro.
     Il libro si chiude con un’appendice che riporta dodici articoli del giornale “L’indipendente”, diretto da Alessandro Dumas, e da sette capitoli biografici su Pietro Monaco e sua moglie Maria Oliverio, sempre del Dumas.
Rocco Biondi

Peppino Curcio, Ciccilla. La Storia della brigantessa Maria Oliverio, del brigante Pietro Monaco e della sua comitiva, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza 2010, pp. 334, € 20,00