26 novembre 2015

Viva ’o Rre, di Orazio Ferrara

Libro piacevole, che si legge rapidamente quasi tutto d’un fiato.
     Il Re di cui si parla è Francesco II, ultimo re del Regno delle Due Sicilie.
     E’ un libro che si schiera, a detta dello stesso autore, dalla parte filo-borbonica, pur rispettando scrupolosamente la verità storica, anche per la naturale inclinazione dell’autore a schierarsi sempre dalla parte dei vinti e dei perdenti. I Borbonici vengono considerati dalla storiografia ufficiale “negazione del diritto delle genti”, vigliacchi che scappano davanti a pochi eroici garibaldini, autori di tutti i mali che affliggono il Meridione. La verità è altra.
     Il libro, che nel suo nucleo centrale raccoglie i capitoli di un libro edito nel 1997, conserva l’impianto originario di agile pamphlet. I piemontesi, e inizialmente per loro Garibaldi, sono stati degli invasori che hanno annesso i territori appartenenti al Regno delle Due Sicilie. Vengono ora aggiunti, in questa edizione, due articoli di Pietro Chevalier, pubblicati da “La Civiltà Cattolica” nel giugno 1902, in cui si svelano “gli squallidi e meschini retroscena di come fu fatta l’Unità d’Italia e dei personaggi che si piccarono di farla, personaggi spesso da operetta e qualche volta anche un po’ cialtroni”. Chevalier era un diplomatico e patriota italiano, uomo di fiducia di Cavour che lo mandò a Napoli come diplomatico presso la corte dei Borbone negli anni decisivi 1859-1860.
     Orazio Ferrara, che negli anni Settanta appartiene al gruppo di giovani della destra estrema ed ha come punti di riferimento gli studi di Carlo Alianello e Silvio Vitale, maturò una forte identità meridionale. E queste radici squisitamente intellettuali, politiche o ideologiche, erano corroborate dall’avere la madre siciliana e il padre napoletano. Nato a Pantelleria, è vissuto per molti anni a Sarno in provincia di Salerno in Campania.
     Il libro si apre con il capitolo intitolato “Il Sud liberato”, dove le parole libertà e giustizia sono scritte sulla punta delle baionette dei soldati piemontesi, che pretendono che tutta l’Italia diventi Piemonte. Il Sud viene “liberato dalla tirannia dei Borbone” con il saccheggio e la rapina. Il capitale monetario del regno napoletano rapinato ammontava a più del doppio degli altri Stati italiani messi insieme. E si procede anche allo smantellamento sistematico dei cantieri navali napoletani, delle fiorenti industrie, dell’artigianato, del commercio, dell’agricoltura. Il Sud viene ridotto alla fame. Ma non basta, viene disintegrato completamente con la leva obbligatoria, il carico fiscale pesante, la burocrazia farraginosa e oppressiva, la mortificazione delle proprie tradizioni.
     E il Sud si ribella con il brigantaggio. Il Ferrara però usa il termine brigante solo nel senso negativo voluto dai piemontesi invasori, noi invece lo usiamo solo ed esclusivamente nell’accezione positiva di patrioti che difendono la loro terra e la loro patria. Dopo la sconfitta del brigantaggio, ai meridionali non resta che l’emigrazione, che dura fino ai giorni nostri.
     Nel 1860 la battaglia di Calatafimi, in Sicilia, non doveva assolutamente essere vinta dai soldati borbonici contro quelli di Garibaldi, secondo quanto era già stato stabilito da occulti poteri sovranazionali (leggi massoneria inglese e italiana). A questo fine molti comandanti e generali napoletani, a cominciare da Francesco Landi, erano stati comprati. I semplici soldati napoletani invece non riuscirono a nascondere la loro rabbiosa amarezza di chi si è visto tradito. Molti di loro crearono e accrebbero le bande brigantesche che per un decennio diedero filo da torcere all’esercito italiano, mandato per oltre la metà a reprimerle.
     I capi delle bande infatti (Pizzichicchio, Cicquagna, Pirichillo, Coppa, Pilone, Romano, Chiavone, Crocco, ecc.) provengono quasi tutti dai quadri del disciolto esercito borbonico. Nelle bande brigantesche vi è una rigida disciplina pari a quella militare. Le razzie, i saccheggi, le uccisioni e i sequestri rispondono alle tragiche e ineludibili necessità della guerriglia e dell’autofinanziamento. Il segreto del successo dei briganti per così lungo tempo sta nella perfetta conoscenza del terreno, nella straordinaria mobilità e nella copertura avuta dalle popolazioni locali; ma anche nella fede: accanto alla bianca bandiera gigliata sventolano anche i colorati stendardi dei santi protettori e di bellissime Madonne.
     I piemontesi ebbero ragione dei briganti usando l’inganno e le fucilazioni sommarie, senza processo e difesa. La vulgata nazionale insegnata per decenni nelle scuole fa acqua da tutte le parti. Una folta schiera di studiosi sta rivisitando la nostra storia patria, senza temere gli anatemi di revisionismo, lanciati dalle mummificate vestali di una vulgata storica nazionale, “ormai buona solo per i gonzi”.
     Dal Ferrara una sopravvalutazione viene fatta dandogli una valenza troppo positiva, secondo noi, della figura del legittimista catalano Rafael Tristany, che tra l’altro fece uccidere il capobanda sorano Luigi Alonzi, detto Chiavone.
     Merito del libro del Ferrara è l’aver messo in luce fatti briganteschi poco noti. A cominciare dall’operato del brigante sarnese Orazio Cioffi, che «si mostrava generoso con i deboli, gentile con le donne, pietoso con i poveri; e in grazia di questo contava numerose simpatie in campagna e in città».
     Altri fatti che escono dal cono d’ombra, nella quale sono stati relegati dalla storia ufficiale, sono quelli legati alla banda Ribera. Operarono, con altri uomini, nella siciliana isola di Pantelleria, che allora era controllata al centro dai reparti sabaudi, e per il resto era nelle mani dei filo-borbonici. Per reprimere questa situazione fu mandato nell’isola un colonnello a capo di un reggimento di fanteria. Per il tradimento di una spia locale i ribelli furono intercettati in una vasta e profonda caverna. Dei quattro fratelli Ribera tre furono condannati dai piemontesi all’impiccagione: Giuseppe, Agostino e Pietro; mentre Giovanni riuscirà ad espatriare nelle Americhe. Ancora oggi quella Grotta dei Briganti, a ricordo del sogno infranto dei legittimisti panteschi, viene visitata da tanti turisti.
     Altro capobanda del quale si parla diffusamente nel libro è Antonio Cozzolino, detto Pilone. Nacque a Torre Annunziata (Napoli), ma sin da piccolo tornò con la famiglia a Boscotrecase da dove provenivano. Nell’esercito napoletano aveva raggiunto il grado di sergente maggiore. Con la sua banda, che riesce a contare una quarantina di unità, riporta diverse vittorie contro i piemontesi, anche spettacolari, ma per sopravvivere esegue anche estorsioni e sequestri. Non è sanguinario, né assassino a sangue freddo. Inafferrabile, il 14 ottobre 1870 viene colpito a morte con varie pugnalate alle spalle perché tradito. Ma egli, conclude il suo libro il Ferrara, «non è affatto morto, continua a cavalcare all’infinito per le strade della nostra terra, cui è sentinella il Vesuvio, e nel cuore di chi non ha dimenticato. Sempre.»
Rocco Biondi

Orazio Ferrara, Viva ’o Rre. Dalla conquista del Sud alla guerra per bande, Capone Editore, Cavallino (Lecce) 2015, pp. 136, € 13,00

8 novembre 2015

Alla caccia dei briganti, di Gaetano Negri



Il libro raccoglie cinquantasei lettere, ordinate cronologicamente, dirette quasi tutte al padre, dall’ingresso di Negri nell’Accademia militare di Ivrea (aprile 1859) alla sua partenza da Calitri (aprile 1862). Tre anni, in media una lettera e mezzo al mese.
     Lettere scritte in perfetto italiano. Ma non tutti i moltissimi soldati mandati al Sud “alla caccia dei briganti” erano così istruiti, anzi lo erano in pochissimi. Per lo più parlavano in dialetto. Negri abbandonato l’esercito e lasciata quella “guerra atroce e bassa, dove non si procede che per tradimenti e intrighi, in un’atmosfera di delitti e di bassezze”, più da sbirro che da soldato, si diede ai suoi vasti ed eterogenei interessi culturali e politici, divenendo sindaco di Milano dal 1884 al 1899, deputato dal 1880 al 1882, infine nominato senatore nel 1890. Morì nel 1902 per una caduta accidentale.
     Ventenne avrebbe voluto seguire Garibaldi nella conquista del Sud, ma il padre glielo impedì. Si iscrisse allora alla Regia Accademia di fanteria presso la scuola militare di Ivrea, conseguendo vari gradi della carriera militare. Entrò in servizio attivo venendo nel napoletano quando esplose il fenomeno del brigantaggio e l’esercito italiano fu impiegato massicciamente in una durissima repressione.
     Inizialmente il Negri fu destinato a Napoli città, dove giunse nei primi giorni del maggio 1861. “L’impressione che produce su di me questo paradiso terrestre è vivissima e potente” scriveva al padre nella lettera del 4 maggio. Napoli è la “più bella città del mondo, credo davvero di sognare”. “Io non posso saziarmi di contemplare l’incantevole prospetto del golfo, il movimento di Toledo e di Chiaja, la pittoresca bizzarria della folla che vi si agita con tanto baccano”.
     Perplessità invece esprime sulla popolazione napoletana; “ciò che maggiormente colpisce al primo sguardo è la miseria, e, più ancora della miseria, l’avvilimento in che è caduta”. E la colpa secondo il Negri è dei Borbone: “i Borboni a Napoli sono profondamente odiati”, scrive sulla falsariga di quanto volevano far credere i piemontesi. Anche se si nota una qualche contraddizione con quanto il Negri afferma nella lettera al padre del 23 ottobre 1861: “Quello che poi mi fa sommo piacere, è di trovare in queste popolazioni uno spirito assai migliore di quello che generalmente si creda”; e nella lettera del 9 dicembre 1861 scrive ancora: “Hai torto di chiamare le provincie napoletane un ricettacolo di delitti. E’ un giudizio troppo severo ed anzi ingiusto”.
     All’inizio del suo servizio nel Sud, scriveva da Vallata il 5 novembre: “I briganti in queste parti continuano ad essere invisibili”. Ed ancora il 10 novembre 1861: “Il comico della cosa sta in ciò, che i briganti non ci sono mai; e credimi fermamente che la loro esistenza è un mito, e tutti coloro che li vedono sono in potere di una allucinazione”. Ma ben presto dovrà cambiare opinione.
     Il 16 novembre, sempre da Vallata, scriveva: “Siamo riesciti a fare un colpo molto importante, essendoci impadroniti di otto terribili briganti che infestavano questo distretto e se ne stavano appiattati in una deserta e lontana masseria”. Il 28 novembre 1861 poi, in una lunga lettera al padre, Negri fa una sintesi del brigantaggio da lui conosciuto: “Le orde brigantesche si dividono ora in tre grandi schiere. Quella di Chiavone ai confini romani; quella di Cipriani [i fratelli La Gala] nelle provincie di Avellino e di Benevento; finalmente la banda di Crocco Donatelli, che infesta la Basilicata, e, fatta più potente e numerosa per l’arrivo degli Spagnuoli capitanati da Borjes”.
     In una lettera al padre dell’agosto 1861, Negri parla “degli errori di Pontelandolfo”. “Gli abitanti di questo villaggio commisero il più nero tradimento e degli atti di mostruosa barbarie; ma la punizione che gli venne inflitta, quantunque meritata, non fu per questo meno barbara. Un battaglione di bersaglieri entrò nel paese [il 14 agosto], uccise quanti vi erano rimasti, saccheggiò tutte le case, e poi mise il fuoco al villaggio intero, che venne completamente distrutto. La stessa sorte toccò a Casalduni, i cui abitanti si erano uniti a quelli di Pontelandolfo”.
     Nello stesso agosto 1861, sempre da Napoli, Negri scriveva al padre: “Pur troppo il brigantaggio nelle provincie è ben lungi dall’essere scomparso, come si sperava che sarebbe avvenuto. Ogni giorno avvengono degli scontri, che naturalmente hanno sempre un esito fortunato per noi”.
     Gaetano Negri, che comandò varie pattuglie, per la lotta al brigantaggio ebbe due medaglie d’argento al valore. La prima per un’azione condotta nei pressi di Montesarchio, lungo la strada di Benevento, con trentasei soldati contro duecento briganti, come Negri scrive il 19 dicembre 1861. La seconda per il combattimento a Calitri del 7 aprile 1862, durato tre ore, contro i briganti di Crocco, che ammontavano a 150 contro 34 soldati comandati da Negri; morirono otto soldati e una ventina di briganti, come Negri scrive nelle lettere al padre dell’8 e 10 aprile 1862.
     A Negri fu ordinato di cambiare spessissimo residenza. E lamenta questo fatto nella lettera al padre del 7 marzo 1862: “Io sono come l’Ebreo errante, colpito da un destino che m’impedisce di fermarmi in un paese qualunque”. Stette a Napoli, a Lìveri, a Vallata, a Monte Vergine, a Montesarchio, ad Ariano, a Bisaccia, a Teora, a Calitri.
     In quest’ultimo paese Negri maturò la decisione di dare le dimissioni dall’esercito. E nell’aprile 1862 scrive: “Non voglio più saperne di cose militari, fino a quando non fischieranno un’altra volta le palle; che spero non saranno più quelle dei briganti, ma di qualche nemico meno feroce e meno ignobile”.
     Ma intanto le palle dei briganti e dei soldati piemontesi continueranno ancora a fischiare per molti anni al Sud.
Rocco Biondi

Gaetano Negri, Alla caccia dei briganti, Edizioni Ofanto, Salerno 2000, pp. 86