8 novembre 2015

Alla caccia dei briganti, di Gaetano Negri



Il libro raccoglie cinquantasei lettere, ordinate cronologicamente, dirette quasi tutte al padre, dall’ingresso di Negri nell’Accademia militare di Ivrea (aprile 1859) alla sua partenza da Calitri (aprile 1862). Tre anni, in media una lettera e mezzo al mese.
     Lettere scritte in perfetto italiano. Ma non tutti i moltissimi soldati mandati al Sud “alla caccia dei briganti” erano così istruiti, anzi lo erano in pochissimi. Per lo più parlavano in dialetto. Negri abbandonato l’esercito e lasciata quella “guerra atroce e bassa, dove non si procede che per tradimenti e intrighi, in un’atmosfera di delitti e di bassezze”, più da sbirro che da soldato, si diede ai suoi vasti ed eterogenei interessi culturali e politici, divenendo sindaco di Milano dal 1884 al 1899, deputato dal 1880 al 1882, infine nominato senatore nel 1890. Morì nel 1902 per una caduta accidentale.
     Ventenne avrebbe voluto seguire Garibaldi nella conquista del Sud, ma il padre glielo impedì. Si iscrisse allora alla Regia Accademia di fanteria presso la scuola militare di Ivrea, conseguendo vari gradi della carriera militare. Entrò in servizio attivo venendo nel napoletano quando esplose il fenomeno del brigantaggio e l’esercito italiano fu impiegato massicciamente in una durissima repressione.
     Inizialmente il Negri fu destinato a Napoli città, dove giunse nei primi giorni del maggio 1861. “L’impressione che produce su di me questo paradiso terrestre è vivissima e potente” scriveva al padre nella lettera del 4 maggio. Napoli è la “più bella città del mondo, credo davvero di sognare”. “Io non posso saziarmi di contemplare l’incantevole prospetto del golfo, il movimento di Toledo e di Chiaja, la pittoresca bizzarria della folla che vi si agita con tanto baccano”.
     Perplessità invece esprime sulla popolazione napoletana; “ciò che maggiormente colpisce al primo sguardo è la miseria, e, più ancora della miseria, l’avvilimento in che è caduta”. E la colpa secondo il Negri è dei Borbone: “i Borboni a Napoli sono profondamente odiati”, scrive sulla falsariga di quanto volevano far credere i piemontesi. Anche se si nota una qualche contraddizione con quanto il Negri afferma nella lettera al padre del 23 ottobre 1861: “Quello che poi mi fa sommo piacere, è di trovare in queste popolazioni uno spirito assai migliore di quello che generalmente si creda”; e nella lettera del 9 dicembre 1861 scrive ancora: “Hai torto di chiamare le provincie napoletane un ricettacolo di delitti. E’ un giudizio troppo severo ed anzi ingiusto”.
     All’inizio del suo servizio nel Sud, scriveva da Vallata il 5 novembre: “I briganti in queste parti continuano ad essere invisibili”. Ed ancora il 10 novembre 1861: “Il comico della cosa sta in ciò, che i briganti non ci sono mai; e credimi fermamente che la loro esistenza è un mito, e tutti coloro che li vedono sono in potere di una allucinazione”. Ma ben presto dovrà cambiare opinione.
     Il 16 novembre, sempre da Vallata, scriveva: “Siamo riesciti a fare un colpo molto importante, essendoci impadroniti di otto terribili briganti che infestavano questo distretto e se ne stavano appiattati in una deserta e lontana masseria”. Il 28 novembre 1861 poi, in una lunga lettera al padre, Negri fa una sintesi del brigantaggio da lui conosciuto: “Le orde brigantesche si dividono ora in tre grandi schiere. Quella di Chiavone ai confini romani; quella di Cipriani [i fratelli La Gala] nelle provincie di Avellino e di Benevento; finalmente la banda di Crocco Donatelli, che infesta la Basilicata, e, fatta più potente e numerosa per l’arrivo degli Spagnuoli capitanati da Borjes”.
     In una lettera al padre dell’agosto 1861, Negri parla “degli errori di Pontelandolfo”. “Gli abitanti di questo villaggio commisero il più nero tradimento e degli atti di mostruosa barbarie; ma la punizione che gli venne inflitta, quantunque meritata, non fu per questo meno barbara. Un battaglione di bersaglieri entrò nel paese [il 14 agosto], uccise quanti vi erano rimasti, saccheggiò tutte le case, e poi mise il fuoco al villaggio intero, che venne completamente distrutto. La stessa sorte toccò a Casalduni, i cui abitanti si erano uniti a quelli di Pontelandolfo”.
     Nello stesso agosto 1861, sempre da Napoli, Negri scriveva al padre: “Pur troppo il brigantaggio nelle provincie è ben lungi dall’essere scomparso, come si sperava che sarebbe avvenuto. Ogni giorno avvengono degli scontri, che naturalmente hanno sempre un esito fortunato per noi”.
     Gaetano Negri, che comandò varie pattuglie, per la lotta al brigantaggio ebbe due medaglie d’argento al valore. La prima per un’azione condotta nei pressi di Montesarchio, lungo la strada di Benevento, con trentasei soldati contro duecento briganti, come Negri scrive il 19 dicembre 1861. La seconda per il combattimento a Calitri del 7 aprile 1862, durato tre ore, contro i briganti di Crocco, che ammontavano a 150 contro 34 soldati comandati da Negri; morirono otto soldati e una ventina di briganti, come Negri scrive nelle lettere al padre dell’8 e 10 aprile 1862.
     A Negri fu ordinato di cambiare spessissimo residenza. E lamenta questo fatto nella lettera al padre del 7 marzo 1862: “Io sono come l’Ebreo errante, colpito da un destino che m’impedisce di fermarmi in un paese qualunque”. Stette a Napoli, a Lìveri, a Vallata, a Monte Vergine, a Montesarchio, ad Ariano, a Bisaccia, a Teora, a Calitri.
     In quest’ultimo paese Negri maturò la decisione di dare le dimissioni dall’esercito. E nell’aprile 1862 scrive: “Non voglio più saperne di cose militari, fino a quando non fischieranno un’altra volta le palle; che spero non saranno più quelle dei briganti, ma di qualche nemico meno feroce e meno ignobile”.
     Ma intanto le palle dei briganti e dei soldati piemontesi continueranno ancora a fischiare per molti anni al Sud.
Rocco Biondi

Gaetano Negri, Alla caccia dei briganti, Edizioni Ofanto, Salerno 2000, pp. 86

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