25 febbraio 2016

Diario di guerra 1860-1861, di Ermenegildo Novelli



Le memorie di guerra di Ermenegildo Novelli furono pubblicate sul quotidiano locale “La Patria del Friuli” di Udine negli anni 1910, 1911, 1912, con il titolo Cinquant’anni dopo – Le memorie del nonno, dedicate “al carissimo nipotino Mario Castagnoli”. Le puntate furono ventiquattro, quanti sono i capitoli del libro; l’editore scrive però di possedere manoscritti incompleti fino alla 28.ma puntata. Se la morte non avesse colto l’autore nel novembre 1912 molto probabilmente i ricordi sarebbero continuati.
     Novelli nel 1859 si era arruolato come volontario nel 39° reggimento di fanteria della brigata “Bologna”. Fece la campagna delle Marche nel 1860. Nel 1861 con la sua brigata fu in Abruzzo per la repressione del brigantaggio.
     Gli avvenimenti briganteschi sostanzialmente rimangono ai margini della narrazione. L’editore, nella sua premessa al libro, scrive che il Novelli ha reso con freschezza e immediatezza quelli che erano il clima e l’atmosfera di allora, e sottolinea tre elementi che ritiene estremamente interessanti: il patriottismo dei volontari, il feroce anticlericalismo, il problema del Meridione con la sua secolare miseria. Si mette in risalto quello che l’editore chiama senso antisociale e antistatale delle masse popolari meridionali, che vedevano nell’esercito dei veri e propri conquistatori stranieri e nello stato un nemico da combattere.
     Ma, continua l’editore, «è triste notare che lo stesso autore, pur avendo una visione aperta e colta del problema unitario, considera quasi involontariamente la popolazione come nemico da domare e il territorio come un terreno di conquista». E questo, diciamo noi, è frutto della mentalità che veniva inculcata a tutti quelli che venivano mandati nel Sud.
     Da questo diario poi si rileva quale somma di problemi abbia comportato l’unità d’Italia dal 1860 ad oggi.
     Alla “liberazione” delle Marche sono dedicati i primi cinque capitoli. Per conoscere lo stile del Novelli riporto alcuni passi di essi. «Verso i primi di luglio 1860 la Brigata Bologna, di cui avevo l’onore di far parte, si trasferì da Alessandria a Torino». «Poi ripartimmo prima per Arezzo, indi per il confine pontificio, accampandoci alla sera presso Montecchio. La guerra era dichiarata e noi felici cantavamo gli inni patriottici per farli sentire anche al di là». «Poco tempo dopo, intraprendemmo quella tremenda campagna contro i briganti, in confronto alla quale quella che ti ho narrato fu una festa da ballo…».
     Il Novelli comanda un plotone di avanguardia composto di 40 bersaglieri. Il lavoro, di giorno e di notte, consisteva nel valicare monti, esplorare grotte, perlustrare boschi, andando a caccia di briganti; «e quando trovavamo il nemico, lo conciavamo per le feste». Quest’ultima frase significa fucilazione senza processo.
     La brigata ebbe una grande mobilità. Stette a Loreto, a Macerata, a S. Genesio, ad Amandola, a Montegallo, ad Arquata, ad Acquasanta, ad Ascoli Piceno, a Teramo, a Pagliaroli, a Isernia, a Venafro, a Napoli, a Nola, a Volturara Irpina, a Solofra, ad Avellino, a Forino, a S. Angelo dei Lombardi, a Bisaccia. Ed infine la brigata tornò a Genova.
     In tutti questi spostamenti, scrive Novelli, «la gioventù ci alleggeriva le fatiche, la speranza di liberare il nostro Paese da nemici interni ed esterni ci sorreggeva e ci sorresse».
     Nell’Ascolano, la banda di briganti più attiva e più numerosa (forse un migliaio, scrive Novelli, di sbandati borbonici e pontifici, renitenti) era quella comandata da Piccioni.
     In altre provincie, Caruso, Ninco Nanco, Crocco-Donchello (sic), La Gala Giona e Cipriano ed altri scellerati, «alla testa ognuno di centinaia di malviventi, tenevano la campagna, incendiando, saccheggiando, ammazzando pastori innocenti, sgozzando intere greggi pel solo piacere di vederne il sangue».
     Vengono descritti i fatti avvenuti a Mozzano prima e a Isernia poi, dove vi furono rappresaglie in seguito all’uccisione di ufficiali e soldati piemontesi. Talvolta però si andava ad inseguire briganti inventati dai manutengoli (anche Sindaci), per portare lontano i soldati dai luoghi dove i briganti volevano davvero colpire.
     Si citano i legittimisti stranieri che lottarono per Francesco II: Langlois, De Trazegnies, Lagrange, Tristany, Zimmermann, Borges. Di quest’ultimo si narrano le vicende avvenute durante il percorso dalla Calabria all’Abruzzo, dove a Tagliacozzo fu fucilato l’8 dicembre 1861, desumendole dal libro di Alessandro Bianco di Saint-Jorioz.
     Concludendo possiamo dire che il libro è quasi uno specchio di quello che si faceva credere ai soldati piemontesi, che venivano mandati al Sud a combattere i briganti, fosse l’ex Regno delle Due Sicilie. Laggiù, scrive il Novelli, mancava tutto quello che occorre alla civiltà.
Rocco Biondi

Ermenegildo Novelli, Diario di guerra 1860-1861, Del Bianco Editore, Udine 1961, pp. 128

18 febbraio 2016

La vicenda di Mons. Giandomenico Falconi, di Luciano Rotolo



L’introduzione al secondo volume sul vescovo Giandomenico Falconi, nato il 1810 e morto il 1862, l’autore Luciano Rotolo la chiude con la seguente frase: «Ancora una volta dedichiamo questo volume sia a coloro che ieri, come Mons. Falconi, non divennero squallidi doppiogiochisti o gattopardeschi cambia casacche, sia a coloro che, ancor oggi, testimoniano con coraggio la fedeltà ai propri ideali sprezzanti delle possibili conseguenze».
     Nella recensione al primo volume erroneamente scrivevo che nella parte documentale del libro veniva riportata integralmente la velenosa risposta anonima all’elogio funebre che Mons. Falconi tenne in occasione della morte del Re Ferdinando II avvenuta il 22 maggio 1859. Quel documento, ivi pubblicato, in realtà era la risposta, di alcuni sedicenti fedeli delle due città Acquaviva ed Altamura, alla lettera pastorale pubblicata il venerdì santo del 1861 dal vescovo Falconi, sul giornale “L’Unità Cattolica”, dal suo esilio di Capracotta.
     Con la pubblicazione di questa lettera pastorale, finalmente reperita, si apre il secondo volume su Mons. Falconi. Essa, per una scelta editoriale, fu pubblicata come “supplemento” al quindicinale, dando così «uno spazio tutto particolare a questo vescovo che era diventato il simbolo, non solo del passato Governo e della Chiesa, ma anche viva testimonianza delle vessazioni che venivano inflitte a coloro che erano rimasti fedeli ai loro valori». La Lettera trasuda una sottile nostalgia, un dolore profondo e una non sopita speranza di poter presto tornare nella sua Diocesi di Acquaviva e Altamura. Il vescovo Falconi poi nella Lettera tiene a sottolineare che i facinorosi che avevano accolto il “nuovo corso” e che lo avevano costretto all’esilio erano soltanto una esigua minoranza.
     La Lettera voleva essere una forte denuncia contro il nuovo governo piemontese il quale usava la menzogna, la paura e la violenza per imporsi.
     La nomina di Giandomenico Falconi a vescovo di Acquaviva e Altamura aveva avuto dell’insolito. Nel 1848, approfittando della confusione politica venutasi a creare con la rivolta scoppiata in Sicilia e con i tumulti verificatosi a Napoli fomentati da una minoranza radicale che voleva sostituire la monarchia con la repubblica, alcuni acquavivesi nominarono a vescovo della propria città l’allora arciprete Giandomenico Falconi. Il Papa Pio IX poi confermò tale nomina. Il Re Ferdinando II infine non solo la ratificò, ma offrì al Falconi la sua amicizia. In occasione dei festeggiamenti per la sua nomina a vescovo monsignor Falconi ideò il lancio in cielo di una grande mongolfiera. Questo “lancio del pallone” è entrato nella tradizione di Acquaviva, in occasione dei festeggiamenti in onore di Maria SS.ma di Costantinopoli, Patrona della Città.
     Nel libro a seguire vengono raccolti tre altri scritti (detti notificazioni, qui nel senso di atti vescovili diffusi a stampa) e di un’altra lettera pastorale scritta in occasione del vile attentato al re Ferdinando II avvenuto l’8 dicembre 1856. Tutti questi scritti hanno dei riferimenti al Regno delle Due Sicilie e sono introdotti da una collocazione storica.
     Con la prima notificazione viene regolamentato un Giubileo indetto per la diocesi di Altamura ed Acquaviva, e si parla della Costituzione concessa da Ferdinando II; con la seconda notificazione si invitano i fedeli ad aderire alla giornata di digiuno sollecitato dal Re, come riparazione per tutti i peccati di anarchia e ribellione verso la Religione e verso il Trono, ed il vescovo parla dell’umiliante fuga del Papa Pio IX a Gaeta; con la terza notificazione infine viene indetto un nuovo Giubileo di tre mesi, per scongiurare il colera che aveva colpito il Regno delle Due Sicilie (insieme ad altri stati europei). In quest’ultimo scritto si ritrova l’approccio teologico del tempo, che riteneva le malattie come castighi di Dio nei confronti del popolo che pecca e si allontana dalla verità.
     A questo libro pensiamo che ne seguirà un terzo sul vescovo Giandomenico Falconi, che metta insieme i contenuti del primo e secondo volume, collocando però premesse e quadro storico in una prima parte e poi in una seconda (quasi appendice) gli scritti del vescovo.
Rocco Biondi

Luciano Rotolo, La vicenda di Mons. Giandomenico Falconi prelato di Acquaviva e di Altamura. Un Vescovo e un patriota nella bufera dell’invasione piemontese, Volume secondo, Edizioni Viverein, Monopoli 2016, pp. 166, € 10,00

14 febbraio 2016

Benedetto Croce ed il brigantaggio



Il libro della Deputazione abruzzese di Storia Patria raccoglie, sul tema del rapporto tra Benedetto Croce ed il brigantaggio, i saggi di Raffaele Colapietra, che è stato docente presso l'Università di Salerno, nato a L'Aquila nel 1931, di Salvatore Cingari, docente presso l’Università per Stranieri di Perugia, nato a Firenze nel 1966, di Luigi Alonzi, docente presso l’Università di Palermo, di Francesco Barra, docente presso l'Università di Salerno, nato ad Avellino nel 1947, di Lorenzo Arnone Sipari, storico, nato a Roma nel 1973.
     La posizione di Benedetto Croce rispetto al brigantaggio, come del resto la storia del suo pensiero politico, è estremamente frastagliata, sinusoidale e stratificata.
     Nell’Ottocento vi furono tre movimenti che si contesero la scena politica: quello dei democratici, quello dei legittimisti monarchici, quello dei liberali. I democratici ritenevano che solo attraverso la partecipazione del popolo si potesse realizzare una rivoluzione dal basso in grado di rovesciare le monarchie. I legittimisti monarchici sventolavano invece il vessillo del popolo fedele al Trono ed all'Altare. I liberali propendevano per un progetto di riforme graduali adottate da ceti dirigenti illuminati, negando alle masse qualsiasi seria azione politica. Sulle posizioni dei liberali si attestava sostanzialmente Benedetto Croce.
     L’interesse di Croce per il brigantaggio è testimoniato dalla pubblicazione di vari saggi, che vengono ripresi e aggiornati nel corso degli anni, mutando talvolta la sua opinione sui briganti.
     Nel 1912 (ma già ricerche erano state effettuate nel 1897) viene pubblicato il libro Angiolillo, sul capobrigante Angelo Duca, nato nel 1734. In esso si metteva in risalto il “lato sociale” del brigante, ma altrove dallo stesso Croce era stato scritto che «esagerano coloro che nell’opera di Angiolillo vogliono vedere quasi l’esplicamento di un programma, una ribellione o una protesta contro l’ingiustizia sociale».
     Dopo Angiolillo, nel 1915 Croce dedica una delle “postille” sulla “Critica, rivista di letteratura, storia e filosofia”, da lui diretta, all’autobiografia di un altro brigante “buono”, questa volta post-unitario, e cioè Michele Di Gè, nato nel 1843. Scriveva Croce: «Consiglio come un buon viatico la lettura della prosa del contadino e brigante Michele Di Gè. Forse nella lettura di queste pagine, non solo si ravviverà lo smarrito senso dell’espressione artistica, ma anche il senso della moralità».
     Nella Storia del regno di Napoli, del 1925, Croce rende omaggio alla forza delle armate della Santa Fede del cardinale Ruffo, che per lui ebbe un carattere di “classe” prefiggendosi l’acquisizione dell’altrui proprietà.
     Nel saggio su Pescasseroli, del 1910, Croce aveva riportato estesamente le tesi radicali dello zio Francesco Saverio Sipari, secondo cui il brigantaggio ha origine nel desiderio dei contadini di elevarsi al di sopra delle proprie disperanti condizioni sociali.
     Nel periodo che Croce fu influenzato dagli studi sul marxismo vien dato più credito al nesso fra brigantaggio e questione sociale.
     Nel 1936 però Croce firmava su “La Critica” una breve nota intitolata Nuova ondata d’affetto pei briganti. In essa si legge: «L’idealizzazione, che dei briganti e di altri delinquenti si fece per malintesa passione di libertà dal romanticismo, aveva questo a sua scusa: che era fatta per la prima volta, sotto l’impulso dell’animo esacerbato e della sconvolta immaginazione, in modo irriflessivo e ingenuo. Ma queste che se ne fanno ora sono calcolate invenzioni, che i documenti storici smentiscono, o sono viete combinazioni teatrali». Chissà cosa avrebbe scritto Croce oggi che moltissimi ritengono che i briganti siano stati insorgenti che hanno lottato per la loro terra, la loro patria, la loro famiglia.
     Per Croce poi la «via della salute per l’Italia meridionale era nell’unione con quella del settentrione, più progredita e civile»; giustificando così l’invasione piemontese del 1860 del Regno delle Due Sicilie, ripetendo le vere calcolate invenzioni, che i documenti storici smentiscono.
     Benedetto Croce era nato a Pescasseroli (L’Aquila in Abruzzo), nel 1866; morì a Napoli nel 1952.
Rocco Biondi
           
Deputazione abruzzese di Storia Patria, Benedetto Croce ed il brigantaggio meridionale: un difficile rapporto, Edizioni Colacchi, L’Aquila 2005, pp. 104