27 settembre 2016

Fiori di ginestra, di Maria Scerrato



I fiori di ginestra erano amati da Nicolina Iaconelli, una delle sette brigantesse trattate da Maria Scerrato nel suo libro. In esso si parla delle donne briganti vissute ed operanti alla frontiera tra lo Stato Pontificio ed il Regno delle Due Sicilie, negli anni 1864-1868.
     Le gesta di queste donne, realmente esistite, sono narrate, scrive Fernando Riccardi nella introduzione, sotto forma di romanzo per rendere più avvincente il racconto.
     Si contribuisce con il libro della Scerrato a dare un volto a quel “popolo senza nome”, ma anche un corpo, un cuore e un’anima, alle sette “donne briganti”.
     Storici che hanno preceduto nel trattare delle brigantesse sono stati Francamaria Trapani, Maurizio Restivo, Valentino Romano.
     La brigantessa Maria Teresa Roselli era nata nel 1838 nello Stato Pontificio. Il padre Domenico venne arrestato più volte con l’accusa di manutengolismo. Lei sposò giovanissima il noto brigante Giuseppe Molinari, dal quale ebbe numerosi figli. Giuseppe venne catturato e chiuso a vita nelle carceri di Frosinone. Maria Teresa, divenuta l’amante del brigante Giorgio il Calabrese, vestita da uomo partecipava abitualmente alle azioni brigantesche, maneggiando con grande precisione le armi da fuoco. Arrestata, venne condannata all’ergastolo da scontare nel carcere papalino delle Terme di Diocleziano a Roma. Fin qui la storia. Il romanzo narra, tra l’altro, di una precedente rocambolesca fuga della brigantessa, lanciandosi dal treno in corsa. E raggiunge i suoi cinque figli: tre maschi e due femmine, che dovrà poi lasciare per sempre prima di consegnarsi ai gendarmi pontifici.
     Michelina Di Cesare nacque nel 1841 a Caspoli in Terra di Lavoro, in una famiglia poverissima. Sposò ventenne un bracciante, che si ammalò e morì l’anno dopo. Svolgendo l’attività di manutengola incontrò il capobrigante Francesco Guerra e ne divenne la donna, avendone anche un figlio. Combatterono insieme per sette anni e furono uccisi insieme dai piemontesi sul Monte Morrone il 30 agosto 1868. Nel racconto si dice del solenne battesimo celebrato per il figlio di Michelina e del brigante Guerra. «Vennero accesi tutti i ceri davanti alle statue dei Santi, stesi i paramenti più belli e il sacerdote cantò la messa, facendo risuonare la voce stentorea nella chiesa gremita». Poi consegnò il bambino a un vecchio monaco, affinché fosse allevato bene. E corse libera, a combattere per la libertà.
     Elisa Garofoli era nata nel 1844 nello Stato della Chiesa. Divenne l’amante del capobanda Luigi Cima e intorno a lei nacque la leggenda de “La Regina delle Montagne”. Ebbe una figlia, che affidò ad una balia. Venne tradita e finì i suoi giorni nel carcere delle Terme di Diocleziano. Si narra della sua investitura come brigantessa. Di fronte alla banda, Luigiotto Cima le porse le armi: una carabina a sei colpi, una pistola revolver ed un pugnale; ed infine le venne inciso sul braccio con un coltello appuntito il simbolo della banda. La bella brigantessa divenne ben presto una leggenda nella piana di Fondi, al punto da oscurare la fama dello stesso capobrigante Luigiotto. E famoso divenne anche il suo tesoro, che nella sua fantasia, quando sarebbe uscita dalla galera e si sarebbe ricongiunta a sua figlia, si sarebbe andato a riprendere.
     Michelina Iaconelli fu una delle molte donne del capobrigante Domenico Fuoco e si diede alla latitanza a soli 18 anni, partecipando alle azioni brigantesche, armata e vestita da uomo. Era nata nel 1846. Strinse un rapporto di amicizia con Michelina Di Cesare. Venne catturata a Scifelli e tradotta in treno presso il carcere femminile alle Terme di Diocleziano in Roma, scortata da 40 militi. Si ignora il suo destino successivo. Temeva Domenico Fuoco ed allo stesso tempo sentiva di non essere in grado di lasciarlo. Anzi gli salvò la vita, quando due briganti tramarono di ucciderlo per intascare la taglia.
     Rosa Antonucci, nata nel 1838 in Terra di Lavoro, sposò avendo solo 16 anni Francesco Cedrone, che sarebbe diventato il luogotenente di Chiavone. Rosa lo seguì nella latitanza. Fu uccisa in combattimento dai piemontesi il 7 febbraio 1866. Rosa da viva era tenuta in grande considerazione dalla banda e, perché onesta e fidata, si decise di affidare a lei la cassa comune.
     Cristina Cocozza è avvolta nel mistero; di essa, come di tante altre brigantesse, si persero le tracce ancor prima di subire il processo. Resta comunque il ritratto scritto da Jacopo Gelli, non suffragato però da nessuna verità storica, che la dipinge come la più feroce delle brigantesse. La Scerrato, nel suo racconto, ci dice che il buio della cella la rese quasi cieca.
     Maria Capitanio, la settima e ultima brigantessa della quale parla il libro, era nata nel 1850 da piccoli proprietari terrieri. Conobbe Antonio Agostino Longo, abbastanza più grande di lei, e lo seguì nella banda del capobrigante Giacomo Ciccone. Fu arrestata dai piemontesi nel 1868. Portata nel carcere di Isernia subì un processo, ma grazie all’intervento del padre, che inventò un rapimento della ragazza da parte del Longo e corruppe i giudici, venne prosciolta da ogni accusa e scarcerata. La leggenda, ripresa nel libro, racconta che preferì suicidarsi ingerendo dei pezzi di vetro, piuttosto che tornare al suo paese. Il libro si chiude con la frase, riferita a Maria Capitanio, «ha continuato ad esistere quando già era morta sul Monte Cavallo di Presenzano un giorno di marzo del 1868».
     Chiudo, rispondendo alla domanda posta nell’introduzione, dicendo che per me la Scerrato è parimenti romanziere e brigantessa.
Rocco Biondi

Maria Scerrato, Fiori di ginestra. Donne briganti lungo la Frontiera 1864-1868, introduzione di Fernando Riccardi, Arte Stampa Editore, Roccasecca (FR) 2016, pp. 168, € 15,00


16 settembre 2016

Brigante se more, di Eugenio Bennato



Molti si illusero di poterci usare per le rivoluzioni, le loro rivoluzioni, ma la libertà non è cambiare padrone. Queste parole di Carmine Crocco sono riprodotte nella quarta di copertina del libro di Eugenio Bennato.
     La libertà di cui parla Bennato è quella sbandierata nel 1860 dai piemontesi invasori del Regno delle Due Sicilie; per quella falsa libertà è giusto lanciare una bestemmia.
     La ballata “Brigante se muore” fu scritta da Eugenio Bennato e Carlo D’Angiò nel 1979, per i titoli di testa dello sceneggiato televisivo “L’eredità della Priora” in sette puntate di Anton Giulio Majano andato in onda su Rai Uno nel 1980, basato sull'omonimo romanzo di Carlo Alianello, ambientato in Basilicata durante il periodo del brigantaggio postunitario.
     A questa canzone è toccata un’avventura particolare ed il libro tenta di raccontarla. Scritta da Bennato e D’Angiò è diventata una canzone di successo con le modalità tipiche della cultura popolare, non condizionata dalla pubblicità e dalle leggi del mercato, e tralascia il riferimento dell’autore vero per far posto alla figura immateriale dell’“autore anonimo”. E così ci ritroviamo che i ragazzi del duemila la cantino convinti che i loro antenati la cantassero nel 1861, molto prima quindi che venisse scritta. Questo processo, che di solito avviene in tempi molto lunghi, per Bennato è avvenuto rapidamente.
     Sorte ancor peggiore è toccata a due versi della canzone. Sono stati cambiati e contraffatti, imbruttendo il canto. L’originale «nun ce ne fotte d’o rre Burbone» viene cambiato in «nuje cumbattimmo p’o Rre Burbone»; l’ultimo verso «e na bestemmia pe sta libertà» diventa «e na preghiera pe sta libertà». Lo sconosciuto manipolatore non capisce che nell’espressione «nun ce ne fotte…» non c’è un intento antiborbonico ma la dichiarata volontà di non affrontare la questione dinastica e che la parola «bestemmia» si intende rivolgerla alla falsa libertà imposta dai piemontesi.
     I briganti combattevano con ardore spontaneo e non per la paga né per l’obbligo di leva, pur nella fedeltà alla causa dinastica; quest’ultima non costituiva la componente principale della loro lotta. E fu questo anche il limite, scrive Bennato, che indebolì l’insorgenza, pose Crocco in contrasto con Borges e indebolì il movimento. Borges infatti fu fucilato e Crocco invecchiò nelle carceri dei Savoia.
     Per i titoli di coda dello sceneggiato “L’eredità della Priora” Bennato scrisse “Vulesse addeventare nu brigante”. Un ritmo incalzante di tarantella per la musica, e un espediente poetico tipicamente popolare per il testo. Anche questa canzone ha subito lo scempio della disinformazione. Eugenio Bennato passa lentamente e inesorabilmente da autore reale ad autore anonimo. Questo è evidentemente, dice ancora Bennato, il prezzo da pagare quando si scrive un brano che diventa best-seller, non nella musica commerciale ma nel circuito alternativo della musica di strada.
     Altre canzoni scritte da Eugenio Bennato e/o Carlo D’Angiò per “L’eredità della Priora” sono: Canzone per Juzzella, Basilicata, Quanno sona la campana, Moresca terza.
     Il sottotitolo che il libro porta è “Viaggio nella musica del Sud”. Bennato analizza alcune sue composizioni e quelle di altri musicisti meridionali, a cominciare da Roberto De Simone. È riportata anche la ballata composta dagli Stormy Six, storico gruppo musicale di area milanese, su Pontelandolfo.
     L’adesione all’Unità era stata una farsa sottoscritta da pochissimi, il popolo nella sua maggioranza stava dall’altra parte. Il fatto storico di quegli anni fu l’insorgenza meridionale contro l’invasione dei Savoia. In quel fatto i due temi del legittimismo e della rivendicazione sociale furono entrambi presenti, con intensità e peso variabili.
     Nel libro vien fatto anche un raffronto tra i contadini del Sud e gli indiani d’America, per i fatti che avvenivano contemporaneamente negli stessi anni successivi al 1860.
     Trent’anni dopo “Brigante se muore”, Bennato nel 2009 ha scritto un’altra canzone che si richiama a quei fatti briganteschi: “Ninco Nanco”. Si prende spunto da due fotografie, fatte scattare dai piemontesi, dopo la sua uccisione a tradimento. Sono foto che ci consegnano, scrive Bennato, «un personaggio eccezionale, un eroe sconfitto che col sorriso appena accennato e scolpito sul volto ci vuol comunicare la grandezza di chi non è morto inutilmente».
     Il libro si chiude con la canzone “Il sorriso di Michela”, scritta da Bennato nel 2010. Si tratta della brigantessa Michelina Di Cesare, uccisa dai piemontesi nel 1868. La fotografia, cui si fa riferimento, molto probabilmente non raffigura una brigantessa reale (e quindi impropriamente viene identificata con Michelina Di Cesare), ma una modella messa in posa dal fotografo nel suo atelier. Certamente di Michelina è invece (come risulta dalla scritta posta sul retro) la foto a seno nudo fatta scattare dai piemontesi dopo l’uccisione della brigantessa.
     Nel successivo libro scritto da Bennato nel 2013 “Ninco Nanco deve morire”, edito da Rubbettino, che ricalca gli stessi argomenti di quello del 2010 che stiamo recensendo, l’ultimo capitolo è intitolato “I briganti del presente”. In esso si dice che i nuovi briganti oggi sono tanti. “Brigante se more” è il loro inno e il loro stile di vita è profondamente segnato dalla conoscenza della storia negata dei briganti.
     E i briganti di oggi, scrive Bennato, sono «imparentati ad altri briganti di altre latitudini, che lanciano da lontano istanze parallele. Dagli indignados di Spagna ai rivoluzionari del Chiapas del subcomandante Marcos in Messico, ai manifestanti di Seattle, ai diseredati del mondo tagliati fuori dal business monetario internazionale».
Rocco Biondi

Eugenio Bennato, Brigante se more, introduzione di Carlo D’Angiò, Coniglio Editore, Roma 2010, pp. 220

4 settembre 2016

Brigantaggio in Basilicata, di Giuseppe Pennacchia



Il libro è una sintesi della storia del brigantaggio, dagli inizi della presenza dell’uomo sulla terra agli anni prossimi al 1870, che segnano convenzionalmente la fine del grande brigantaggio postunitario. Libro utile per uno sguardo d’insieme sul fenomeno che, con alti e bassi, è sempre esistito. Man mano che ci si avvicina ai nostri tempi si parla sempre più dei briganti di Basilicata.
     Quando l’uomo, da raccoglitore diventa cacciatore, imita il comportamento degli animali predatori. Si passa dal lupo (simbolo della forza), alla volpe (simbolo dell’astuzia), al cane (amico dell’uomo pastore-allevatore e nemico dei razziatori-briganti). I briganti però, pur imitando principalmente i primi due animali, nel corso della storia verranno a distinguersi dalle altre tipologie di fuorilegge acquisendo “tratti di relativa nobiltà”. I briganti infatti saranno gli unici a “scrivere e possedere una storia”. Essi «sono riusciti a rappresentare frammenti di storia, anche per periodi non brevi, di una certa importanza e qualità, imponendosi per coraggio e fierezza, nella consapevolezza di appartenere ad una categoria sociale non irriverente e bastarda, ma figlia e simbolo di tradizioni antichissime, se non, in alcuni casi, addirittura nobili».
     Anche i briganti avevano le proprie divinità protettrici. Nel mondo greco si tratta dell’eterno adolescente Hermes e di Autolico, che possiede il potere magico di far sparire gli oggetti rubati e cambiare la forma degli animali che ha razziato. Presso i Romani abbiamo due figure femminili: Laverna, patrona anche della notte e dell’oltretomba, e Furina, preposta principalmente alle fonti ed alle acque.
     Si dà del brigante a chi si comporta con modi spavaldi, ma anche in un certo senso affascinanti, mitizzando il personaggio fino ad indicare colui “che ruba al ricco per dare al povero”. Il brigante spartisce in modo equo il frutto di grassazioni e ricatti, mantiene la parola data, assolve ai debiti, rispetta il capo e i suoi manutengoli ed amici, ma se tradisce viene eliminato. Può conseguire onori e ricchezze, e talvolta diventare famoso.
     Il brigantaggio può non essere molto distante da altre categorie sociali, anche da quelle considerate più alte, cui spesso furono contigue, se non proprio organiche. Non sarebbe possibile infatti scrivere una storia di semplici ladri o di assassini, se si fosse trattato soltanto di individui isolati, privi di consenso sul territorio.
     Il brigante fa giustizia dei torti, prende al ricco e aiuta il povero, non uccide se non per autodifesa o per giusta vendetta, non si distacca mai completamente dalla sua comunità, non è nemico del re, è amato e appoggiato dai suoi compaesani.
     Assai viva rimane ancora oggi la memoria dei briganti nelle comunità che li hanno espressi. Pennacchia cita vari esempi di questa memoria; tra essi le iniziative che svolgono a Villa Castelli in provincia di Brindisi, organizzate dall’associazione “Settimana dei Briganti - l’altra storia” che presiedo.
     Nel libro vengono descritte le gesta di briganti famosi che vanno dal periodo romano all’età moderna (Felix Bulla, Angelo del Duca detto Angiolillo); del periodo napoleonico: repubblica napoletana (Gerardo Curcio detto Sciarpa, Luca Scocozza), regno di Giuseppe Bonaparte (Nicola Abalsamo detto Pagnotta), regno di Gioacchino Murat (Rocco Buonuomo detto Scozzettino, Domenico Rizzi detto Taccone, Pasquale Lisanti detto Quagliarella). Nelle bande non mancavano ecclesiastici e borghesi.
     Nel periodo murattiano viene scatenata una repressione spietata ad opera del generale Manhès, consistente essenzialmente nel far troncare alle radici, con la forza, ogni forma di connivenza tra popolazioni e briganti.
     L’ultima parte del libro (circa un terzo) parla del periodo dell’Italia unita, che inizia il 1860. Protagonista assoluto è Carmine Crocco, che coordinava una grande massa di uomini, suddivisi in molte bande, ognuna delle quali aveva una zona di operazione e un capo; le bande più grandi erano composte da qualche centinaia di uomini. Fra questi capibanda abbiamo Giuseppe Nicola Summa detto Ninco Nanco, Giovanni Fortunato detto Coppa, Vito Vincenzo Di Gianni detto Tòtaro, Donato Tortora, Giuseppe Caruso detto Zi’ Peppe, che poi tradirà Crocco.
     Sulla falsariga di molti scrittori su Crocco, anche Pennacchia riporta come vero cognome Donatelli e come soprannome Crocco. Dal certificato di nascita invece il vero cognome di famiglia risulta essere Crocco.
     Le operazioni più grandi guidate da Crocco si svolsero a Ripacandida, Venosa, Melfi, Rionero e nell’Alta Irpinia.
     Tra Crocco e Borges, mandato nell’ex Regno delle Due Sicilie per fornire una direzione militare ed un chiaro indirizzo legittimista alla spontanea rivolta contadina guidata dai briganti, sorsero contrasti insanabili, che spinsero quest’ultimo ad abbandonare la Basilicata nel tentativo di raggiungere Roma. Ma Borges venne raggiunto dai piemontesi e fucilato a Tagliacozzo.
     La “legge Pica” diede inizio ufficialmente da parte piemontese alla legislazione eccezionale, che istituì i tribunali militari, le giunte provinciali per l’invio al domicilio coatto, l’autorizzazione a proclamare lo stato d’assedio. Questo provvedimento diede il colpo di grazia al movimento di ribellione.
     Crocco, dopo altri scontri con l’esercito piemontese, si costituì nell’agosto del 1864 nello Stato Pontificio e fu messo in carcere a Roma. Dopo l’annessione del 20 settembre 1870 dello Stato Pontificio al regno piemontese, Crocco fu trasferito in varie carceri italiane, finché nel 1872 fu processato a Potenza. Condannato al carcere a vita morì nel carcere di Portoferraio nell’isola d’Elba il 18 giugno 1905.
     Crocco dettò le sue memorie, al capitano medico Eugenio Massa, che furono pubblicate nel 1903.
     Le ultime pagine del libro di Pennacchia sono dedicate alle brigantesse, che seguivano a vario titolo i briganti uomini. Fra esse abbiamo Maria Rosa Marinelli, Maria Giovanna Tito, Maria Lucia Dinella, Filomena Cianciarulo, Giuseppina Vitale, Arcangela Cotugno, Elisabetta Blasucci, Mariateresa e Serafina Ciminelli, Angela Maria Consiglio, Maria Domenica Piturro.

Giuseppe Pennacchia, Brigantaggio in Basilicata, Edizioni Odisseo, Itri 2007, pp. 168