24 maggio 2017

Storia politico-militare del brigantaggio, di Angiolo De Witt



Il libro è un romanzo d’amore il cui titolo fa pensare ad un saggio sul brigantaggio. I fatti dei briganti, che sono sullo sfondo, sono in realtà l’occasione per la romanzesca storia d’amore. L’autore è un ufficiale dell’esercito piemontese mandato a combattere i briganti nel 1862 da Dogliani, paese in provincia di Cuneo in Piemonte, a Campobasso, capoluogo del Molise, per accompagnare seicento soldati provenienti dal disciolto esercito borbonico e che avevano accettato di passare nell’esercito savoiardo. Comandava la compagnia il capitano Crema.
     Fra questi soldati “sbandati” vi era il caporale Michele Squillace, nato a Castropignano nel Molise in provincia di Campobasso nel 1830, in una famiglia benestante; il paese conta ora circa mille abitanti, nel 1860 ne aveva il triplo. Il padre di Michele, l’avvocato Maurizio Squillace, aveva come acerrimo nemico il duca del luogo. Di Costanza, figlia del duca, si innamora Michele, corrisposto. Costanza però viene promessa sposa al rampollo della ricchissima famiglia Lo-Giudice, che aveva avuto origini molto modeste.
     Nel frattempo i piemontesi, con il De Witt, giunsero a Pontelandolfo, paese in provincia di Benevento, che era stato, nell’anno precedente, incendiato e sterminato dai piemontesi, come rappresaglia all’uccisione da parte dei briganti di quaranta soldati; il castigo, scrive De Witt, fu tremendo ma fu più tremenda la colpa, dimostrando così di essere totalmente dalla parte dei piemontesi.
     Nel libro si parla anche del comportamento del piemontese capitano Crema, che era «meno cortese di un capobrigante» scrive De Witt. Per mancanza di caserme, la compagnia dei militari piemontesi fu accasermata nella chiesa parrocchiale di Colletorto, paese molisano. Il Crema profanò la pisside con le ostie consacrate, spargendole per terra. La risposta a questa profanazione fu una sollevazione popolare contro i piemontesi. Solo l’intervento di conciliazione del parroco evitò che tutti i piemontesi venissero massacrati. Il capitano Crema fu allontanato da Colletorto, ed il parroco Aliprandi fu trasferito alla parrocchia di Castropignano, dove ebbe a godersi una più lucrosa prebenda.
     Intanto Costanza sposa il giovane Lo-Giudice, ma ama sempre Michele, con il quale scambia alcune lettere d’amore.
     De Witt narra anche l’attentato fallito del 1856 di Agesilao Milano al re borbone Ferdinando II. Dopo l’esecuzione capitale di Agesilao Milano, Michele Squillace viene accusato di complicità, ma un intervento della duchessa Costanza lo salva.
     Nel libro si parla ancora del capitano Crema e così lo descrive De Witt: «Tutto sommato è un fatto che Crema era un prepotente, ma un ameno prepotente, che colle sue sortite serio-umoristiche dal tragico cadeva spesso nel ridicolo». Il famoso proclama di Crema, affisso sui muri di Campobasso, diceva che sarebbe stato fucilato «chiunque tratterà o alloggerà briganti, chiunque darà segno di tollerare o favorire il più piccolo tentativo di reazione, chiunque verrà incontrato per le vie interne o per la campagna con provvigioni alimentari superiori ai propri bisogni o con munizioni da fuoco per ingiustificato uso, chiunque avendo notizie dei movimenti delle bande non sarà sollecito di avvisarne il sottoscritto».
     Ampio spazio viene dato nel libro al capo brigante molisano Nunzio di Paolo, che comandava una banda di una novantina di briganti, parte a piedi e parte a cavallo, e che esercitava ricatti e requisizioni di viveri e di contanti. Di altri briganti parla De Witt, tra i quali Crocco, Caruso, Ninco-Nanco, Cavalcante, Fuoco, Tamburini, Morgante, Cascione, Luca Pastore, Angiolo Maria del Sambro; parla a lungo anche della brigantessa Filomena.
     Michele Squillace, per vendicarsi di suo fratello Leone che dopo la morte del padre voleva impossessarsi di tutta la proprietà e per stare vicino alla sua amata Costanza, lasciò l’esercito e divenne il “brigante nero” (aveva sulla faccia una pezzuola di seta nera nella quale erano stati praticati dei buchi per gli occhi, il naso e la bocca); faceva tantissime opere di bene a tutti quelli che ne avevano bisogno; venne ucciso a fucilate dai soldati piemontesi come un brigante qualunque. Costanza, dopo la morte del suo amato, si ammalò, rifiutò tutti i rimedi della scienza medica e morì.
Rocco Biondi

Angiolo De Witt, Storia politico-militare del brigantaggio nelle provincie meridionali d’Italia, Forni Editore, Sala Bolognese 1984, pp. 399

15 maggio 2017

La mala vita di Nicola Morra, di Raffaele Vescera


«Raffaele Vescera si distingue per originalità e pregnanza di scrittura. Ho trovato in lui un vigoroso ingegno», così scriveva Gesualdo Bufalino, dopo che nel 1992 uscì “Inganni”, il primo romanzo di Vescera. Anche per questo altro romanzo su Nicola Morra si può esprimere lo stesso giudizio.
     Nicola Morra nacque a Cerignola (Foggia in Puglia) il 17 giugno 1827, morì in carcere a Firenze il 13 maggio 1904; aveva 77 anni. Secondo il mito fu un gentiluomo che rubò ai ricchi per dare ai poveri. Fu prima contro i Borboni e poi contro i piemontesi, quando questi ultimi invasero il Sud. Trascorse molti anni in carcere, dal quale evase o fu rimesso in libertà. Fu, come si evince dal romanzo, un brigante solitario, al contrario di Carmine Crocco che riuscì a formare una banda di oltre duemila uomini.
     Tra fughe ed evasioni, fece cinquanta e passa anni di galera «perché non poté sottrarsi alla maledizione della sua nascita e perché di poveri cristi messi in croce sono piene le terre che guardano il Mediterraneo».
     Pasquale Ardito pubblicò nel 1896 una biografia del Morra, dopo averlo intervistato a lungo. Vescera, come scrive nella premessa al romanzo, si è rifatto a quella biografia, però «con beneficio d’inventario e licenza d’invenzione». Interessante sarebbe scoprire quali sono i fatti realmente accaduti e quali sono inventati. Successivamente il libro dell’Ardito è stato ristampato nel 1993 e nel 2011.
     A diciotto anni – scrive Vescera – Morra era diventato un incorreggibile scapato, baldanzoso e burlone, che giocava con i fanti, senza risparmiare né vescovi né santi.
     Nel romanzo sono anche utilizzati alcuni brani dell’autobiografia del capobrigante Carmine Crocco e dell’arringa accusatoria fatta dall’avvocato torinese Enrico Ferri nell’ultimo processo contro Morra a Benevento.
     Vescera scrive che la sua infanzia è stata accompagnata dalla musica di una lunga canzone che raccontava le gesta eroiche del bandito Morra cantate dai cantastorie. Naturalmente, la bontà dell’eroe si dava per scontata, perché le sue azioni erano dettate da un codice dal quale non si poteva prescindere. La canzone popolare ha supplito alla scarsa produzione letteraria, dando luogo ad una cultura orale. E ne vien fuori «un Sud fortemente contraddittorio, dolce e amaro, affettuoso e feroce, cheto e sfuggevole, solare e misterioso, insieme».
     Sul treno che lo portava al domicilio coatto di Monopoli, ad un passeggero che, accortosi del suo pallore e del suo nauseato imbarazzo, gli chiedeva se avesse bisogno di aiuto, Morra rispose: «No grazie, paisà, non è niente, è soltanto che sta arrivando un secolo di merda».
     Sua cugina Rosina fu l’unico amore, che accompagnò Morra durante la sua lunga vita, e che comunque non fu coronato da un figlio che Rosina desiderava tanto.
     Gran parte del romanzo è dedicato al tentativo di recuperare dal figlio di Giovanni De Nittis i dodicimila ducati dati al padre. Il giovane De Nittis prima divenne sindaco e poi deputato. Vinse infatti il ballottaggio per quest’ultima elezione proprio contro Nicola Morra, per pochi voti. Non restituì mai i soldi al ‘bandito’, anzi lo fece arrestare e condannare due volte per ricettazione.
     L’etnomusicologo Rocco Forte, nell’appendice al romanzo di Vescera, scrive che la storia raccontata è a noi pervenuta per via orale, uno fra i più antichi ed affascinanti mezzi di trasmissione. Un cantore autodidatta di Barletta fece registrare nel 1963 su disco 45 giri la canzone di Nicola Morra, dalla casa discografica Combo Record di Milano; la canzone è cantata da Bruno Dasi e accompagnata dal complesso pugliese di Tony Di Palma. Il disco ebbe successo non solo a livello locale ma anche a livello nazionale. Tant’è che si trova al primo posto dal gennaio all’aprile del 1964. In seguito la storia di Nicola Morra fu continuata e vennero incisi altri due 45 giri con la III e IV parte e la V e VI parte. Poi tutte le sei parti vennero ristampate su di un unico disco formato 33 giri. E «ancora oggi questa canzone – chiude la sua appendice Forte – continua a raccontare la storia di Nicola Morra che grazie al ritorno dell’arte di questo nuovo romanzo ci può ancora insegnare qualcosa».
Rocco Biondi

Raffaele Vescera, La mala vita di Nicola Morra, Asefi Editore, Milano 2003, pp. 190

7 maggio 2017

La briganta, di Maria Rosa Cutrufelli



Maria Rosa Cutrufelli aveva già pubblicato nel 1974 un saggio, intitolato “l’unità d’italia, guerra contadina e nascita del sottosviluppo del sud”, con il quale aveva trattato il brigantaggio postunitario come una specie di lotta di classe. Con il romanzo “La briganta” del 1990 il brigantaggio postunitario costituisce lo sfondo storico della storia che viene narrata, come la stessa Cutrufelli scrive nella postfazione al romanzo, ricordando pure alcuni dati per comprendere meglio i personaggi e le vicende del libro. La repressione del “grande brigantaggio” costò più denaro e più morti di tutte insieme le guerre del Risorgimento, per sconfiggere “i briganti” fu necessario proclamare nel Sud lo stato d’assedio, furono istituite con la legge Pica “leggi eccezionali”, furono introdotti il confino di polizia e la carcerazione preventiva, furono istituiti i tribunali militari.
     Molto di quello che viene narrato con la fantasia nel romanzo lo troviamo realmente nella storia del brigantaggio postunitario. L’espediente della ‘briganta’ di narrare la propria vita ad uno studioso richiama alla mente Carmine Crocco che detta la sua ‘autobiografia’ al capitano Eugenio Massa. Margherita, così si chiama la briganta del romanzo, la quale uccide il marito conficcandogli un lungo spillo in gola richiama la brigantessa Filomena Pennacchio. La trionfale accoglienza di Carmine Spaziante richiama l’accoglienza del capobrigante Carmine Crocco in diversi paesi.
     La ‘briganta’ del romanzo è una ragazza agiata; la madre apparteneva a una famiglia aristocratica, il padre non era un nobile ma un ricco proprietario di terre coltivate e di boschi, di masserie e di casali. Aveva avuto una vera educazione, con conseguente buona istruzione. In gioventù aveva tenuto un salotto frequentato da poeti e brillanti ufficiali, da filosofi e avvocati, da uomini politici ed economisti.
     Ma dopo l’uccisone del marito si era data al brigantaggio, raggiungendo il fratello Cosimo che era entrato nella banda del capobrigante Carmine Spaziante. E divenne una vera briganta, non donna di brigante. «Scegliendo le montagne, scrive Margherita, avevo scelto la reazione, che è il nome dato al legittimismo borbonico e, al tempo stesso, alle sollevazioni contadine». Queste ultime erano una richiesta delle terre per chi le lavorava e anche una risposta alla revoca da parte delle autorità piemontesi del diritto di semina, pascolo, legnare, acquare, pernottare sui fondi comunali.
     Partecipò alla guerra del brigantaggio, vincendo e perdendo. «Sulle montagne io combattevo una guerra privata contro il mio destino». Il fratello Cosimo le aveva detto che non doveva essere lei, offesa, ad uccidere il marito.
     Combatté fino a quando non venne catturata, nell’agosto del 1861. Un soldato piemontese stava per ucciderla, ma lei con un gesto sicuro aprì la casacca, mostrando in piena luce il seno; il soldato abbassò il fucile.
     I primi giorni dopo la cattura furono orribili; fu frugata dappertutto, anche nelle parti intime. Al processo fu condannata a morte; ma successivamente la pena fu commutata in ergastolo.
     Venti anni dopo la cattura Margherita scrisse la sua storia e «solo con la morte avrà fine questa eterna agonia».
Rocco Biondi

Maria Rosa Cutrufelli, La briganta [romanzo], [La luna, Palermo 1990] Frassinelli, Milano 2015, pp. 158

3 maggio 2017

Il Sergente Romano, di Bitetti e Genoviva


Questo romanzo storico, interpretato ricorrendo sempre alle fonti storiche, è la narrazione della vita di Pasquale Domenico Romano, uno dei più famosi protagonisti del brigantaggio meridionale postunitario. Il Romano ed il brigantaggio però sono visti dalla parte risorgimentale e dei piemontesi vincitori della guerra fratricida fra italiani del nord e quelli del sud.
     Era nato a Gioia del Colle, grosso paese in provincia di Bari, il 24 settembre 1833, in una umile famiglia; il padre Giuseppe Romano faceva il pastore e la madre Anna Concetta Lorusso era una contadina. All'età di sei anni il padre lo aveva portato con sé in mezzo ai campi e ai boschi. A diciotto anni cercò di riscattarsi arruolandosi nell’esercito borbonico. Imparò a leggere e scrivere ed ottenne il grado di sergente.
     Ma il 1860, in seguito all’invasione piemontese del Mezzogiorno e allo scioglimento dell’esercito borbonico, dovette ritornare a Gioia e visse per un periodo da sbandato. Finché non si diede alla macchia, organizzando la resistenza in nome del re Francesco II andato in esilio a Roma.
     Dai due autori viene affrontata da qui in poi la problematica del brigantaggio. Viene riconosciuto al Romano un autentico ideale e un legittimo interesse a far ritornare il re Francesco II, ma in genere il brigantaggio viene considerato delinquenza comune.
     Viene intanto costituito a Gioia un Comitato borbonico e Pasquale Domenico Romano viene eletto Comandante Generale dei partigiani borbonici. Questi vengono suddivisi in quattro Compagnie agli ordini rispettivamente di Giuseppe Valente di Carovigno detto Nenna Nenna, di Cosimo Mazzeo di S. Marzano detto Pizzichicchio, di Antonio Lo Caso di Ginosa detto Capraro e di Rocco Chirichigno di Montescaglioso detto Coppolone. Aiutante del Romano viene nominato Francesco Ferrante.
     Il primo atto violento da parte di quattro briganti è l’uccisione del sergente della Guardia Nazionale Teodorico Prisciantelli. Il Romano non approva e teme che i suoi piani vengano sconvolti.
     Si decide di assaltare, da parte dei briganti, il Comune di Gioia e il 28 luglio 1861 viene conquistato il borgo San Vito, con l’appoggio della popolazione. Stragi e saccheggi vengono compiuti sia dagli assalitori che dai difensori. I due autori però mettono in risalto solo quelli dei briganti e scrivono: «la folla inferocita si spostava da un punto all’altro del borgo con urla selvagge, alla caccia di persone ree soltanto di aver voluto l’Italia una e indipendente sotto la guida di Vittorio Emanuele II». Ma noi sappiamo che questa descrizione è incompleta. Seguì una feroce repressione.
     Seguirono poi altre gesta del sergente Romano che ebbero a teatri Martina Franca, Massafra, Santeramo, Acquaviva, Fasano, Monopoli, Putignano, Noci.
     Molta parte della finale del libro è dedicata al gentiluomo Antonio Genoviva di Taranto, ucciso dai briganti in seguito al sequestro di un suo massaro della fattoria Trigli, lo stesso giorno in cui fu ucciso il sergente Romano: il 5 gennaio 1863.
     Nel bosco di Vallata, vicino Gioia, il Romano tradito da un delatore fu accerchiato dai piemontesi e ucciso con una sciabolata alla testa.
     Nel libro sono riportati vari documenti, alcuni corretti, riportati poi in appendice nella versione originale.
     La prima edizione del libro uscì nel 1976, quando gli autori ora morti erano entrambi vivi. Pochi erano allora i libri che parlavano del sergente Romano. Successivamente tali libri si sono moltiplicati.
Rocco Biondi

Nicola Bitetti – Francesco Genoviva, Il Sergente Romano brigante terribile, Schena, Fasano (Brindisi) 1999 (prima edizione 1976), pp. 216