21 settembre 2017

La guerra cafona, di Salvatore Scarpino



Scarpino, nel suo libro, afferma che il brigantaggio postunitario durò sostanzialmente un decennio, dall’autunno 1860 al 1870, e lo divide in due fasi: la prima, che va dall’autunno 1860 alla primavera 1861; la seconda, che va dalla cessazione della resistenza borbonica (con la resa di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto) alla fine del 1870. Nella prima fase, le masse popolari combattevano in appoggio a forze regolari. Nella seconda, i briganti diventano autonomi e possono essere considerati «partigiani». Sotto il profilo pratico queste distinzioni non ebbero alcuna influenza; i briganti vennero fucilati sia nella prima che nella seconda fase.
     Discreta importanza ebbero i fuorusciti dal Regno borbonico, che si rifugiarono principalmente a Torino con i piemontesi; quasi tutti erano letterati, molto digiuni di economia politica. Essi erano le avanguardie, che indussero in errore i piemontesi. L’errore più grande che commisero, scrive Scarpino, fu quello di diffondere la storiella del Mezzogiorno ricco; per loro bastava rimuovere il Borbone, con la sua cricca reazionaria, e tutto sarebbe andato a posto. Ma anche se ciò fosse vero, non andò però così. Codesti emigrati, scrive ancora Scarpino, avrebbero dovuto fare un poco di autocritica: avrebbero dovuto spiegare perché non avessero mai considerato i cafoni come persone; avrebbero dovuto parlare della propria spocchia e della propria avidità; avrebbero dovuto elencare le cecità e le nequizie che gli impedivano di vivere in armonia con la gente. I piemontesi perciò erano ben poco informati sul Sud. La disinformazione e la faciloneria «fecero sì che l’incontro fra Nord e Sud si risolvesse nell’amarezza delle delusioni incrociate». La “guerra cafona”, con l’esplosione del brigantaggio, fu il primo frutto di queste delusioni.
     «Passata la buriana del brigantaggio, - scrive Scarpino - i cafoni furono spinti dalla fame, ma anche da quel senso di interiore “estraneità”, sulle strade dell’emigrazione e si portarono dentro sospetti e rancori nei confronti dello Stato lontano e ostile». E il libro si chiude con l’affermazione, che conserva ancora la sua validità: «Da quel decennio tragico della Mala Unità sono giunti fino ai giorni nostri equivoci e veleni di cui stentiamo a liberarci».
     Il termine cafone nell’Italia meridionale indica i contadini senza intenzione spregiativa.
     Scarpino divide il suo libro in cinque capitoli. L’ultimo, intitolato “Veleni, una rivoluzione illiberale”, lo abbiamo sostanzialmente sintetizzato in quello che abbiamo scritto finora. Nei precedenti, facendo una scelta fra i briganti che ritiene più importanti, scrive di Carmine Crocco, José Borges, Luigi Alonzi detto Chiavone, fratelli Cipriano e Giona La Gala, Marianna Oliverio detta Ciccilla, Pietro Monaco.
     Il capitolo che parla di Crocco e di Borges è intitolato “L’armata stracciona”. Di questa armata infatti facevano parte principalmente i contadini senza terra. Ma vi erano anche il clero, i vecchi impiegati borbonici rimasti senza posto, i soldati dell’armata sconfitta. Crocco era nato a Rionero in Vulture della Basilicata il 5 giugno 1830. Ebbe un poco d’istruzione dallo zio Martino. Nel 1849 Carmine andò soldato sotto i Borbone. Ma la vita da militare non durò molto. Regolò alcuni conti aperti all’onore della sua famiglia e si diede alla campagna. La vita da brigante gli offriva fascino e rispetto dei baroni e dei proprietari. Ma venne catturato e il 1855 venne rinchiuso nel carcere di Brindisi, dal quale riuscì a fuggire nel 1859. Nel 1860 si arruolò nell’esercito garibaldino, sperando nell’annullamento delle sue condanne. Ma così non fu, e allora Crocco riprese la vita dei boschi divenendo filoborbonico. La banda da lui capitanata, nei periodi di maggiore auge, riuscì a mettere insieme fino a duemila uomini. Assaltò vari paesi, principalmente della Basilicata, riportandoli nominalmente, ogni volta per pochi giorni, sotto il governo borbonico.
     L’avventura del generale catalano José Borges, che ebbe l’ultima illusione di riportare il re borbone Francesco II sul trono del Regno delle Due Sicilie, è strettamente legata a Crocco. I due stabilirono di assaltare e prendere Potenza, capoluogo della Basilicata; ciò avrebbe costituito un grande successo politico e militare. Ma l’operazione, per contrasto fra i due, fallì. Borges, successivamente tentò di raggiungere il territorio pontificio, ma prima di raggiungerlo fu arrestato e fucilato con i suoi a Tagliacozzo in Abruzzo.
     Crocco nel 1864, divenuto ormai scomodo, fu arrestato dai pontifici. Dopo Porta Pia, passato lo Stato pontificio ai piemontesi, fu processato e condannato a Potenza nel 1872. Dopo oltre quarant’anni di carcere, morì il 18 giugno 1905.
     Il capitolo in cui si parla di Luigi Alonzi alias Chiavone è intitolato “il generale con le cioce”. Chiavone fu il brigante più fotografato del Sud. Un giornalista e un fotografo dell’autorevole settimanale “L’Illustration-Journal universel” si recarono a intervistarlo; il loro servizio uscì ai primi di gennaio 1862; il brigante si lasciò fotografare prima con le cioce ai piedi e poi con l’alta uniforme. Era nato a Sora, in Terra di Lavoro, nel 1825. Ebbe un ampio seguito ed il consenso popolare non gli mancò. Conseguì diverse vittorie contro i piemontesi. Chiavone il 28 giugno 1862 fu arrestato, processato e fucilato da Rafael Tristany, per i contrasti che c’erano fra i legittimisti stranieri e i briganti del Sud.
     Altro capitolo è intitolato “intrigo internazionale” e parla dell’avventura dei fratelli Cipriano e Giona La Gala. Questi capibriganti avevano la loro base sui monti del Taburno, ma operavano nella vasta zona comprendente il Casertano, il Nolano, l’Irpinia e il Beneventano. Arrivarono ad attruppare anche più di cinquecento uomini. Riportarono varie vittorie contro i piemontesi; da questi erano braccati; finché puntarono sul territorio pontificio. Si decise di mandarli all’estero e si inscenò la mascherata sull’Aunis. Quest’ultima era una nave a vapore dell’Imperiali Messaggerie Francesi; su di essa dai piemontesi vennero arrestati i La Gala; vennero consegnati, su richiesta, ai francesi, con l’obbligo dell’estradizione. Nel 1864 vennero dai piemontesi processati; con decreto reale la condanna a morte fu commutata nel carcere a vita.
     Il re e viceré del penultimo capitolo sono rispettivamente il brigante (Re della campagna) e chi comanda il regno. Si parla della brigantessa Marianna Oliverio, detta Ciccilla, che fu la più celebre “fuorilegge” di tutto il Sud. Fu moglie di Pietro Monaco, altro brigante della Sila; fu ucciso da briganti della sua banda, per intascarne la taglia. Il pentitismo dava i suoi frutti. Ciccilla riuscì a fuggire e continuò a battere la campagna, finché non fu presa.
Rocco Biondi

Salvatore Scarpino, La guerra cafona. Il brigantaggio meridionale contro lo Stato unitario, Boroli Editore, Milano 2005, pp. 174

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