29 aprile 2018

Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta, di Giuseppe Buttà

Il libro del Buttà, che ha valore di documento, ci dà un’immagine dell’impresa garibaldina e dell’annessione all’Italia del Regno delle Due Sicilie ben diversa da quella tradizionale, consacrata dai testi scolastici e dall’agiografia risorgimentale.
     Giuseppe Buttà, nato nel 1826 in provincia di Messina, compì gli studi ecclesiastici nel convento palermitano dei domenicani, e nel 1859 ebbe l’incarico di cappellano militare nel 9° battaglione cacciatori nell’esercito borbonico. Si assunse l’incarico di scrivere gli avvenimenti di quel battaglione durante l’itinerario da Boccadifalco a Gaeta. Scriveva, come lui dice, sul campo di battaglia. Quello scritto restò gettato per 14 anni in mezzo a tante altre carte. Poi, dopo aver seguito il re Francesco II nell'esilio romano, tornò a Napoli e divenuto collaboratore del giornale legittimista La Discussione, pubblicò quel Viaggio in estratti nel 1875, ristampato nel 1882 in edizione anastatica. Buttà riordinò quelle carte, facendovi quelle aggiunte necessarie per farne quasi un racconto completo di tutti gli avvenimenti della guerra del 1860 e 1861. E l’autore ricorda ai suoi lettori, che egli non solamente fu testimone oculare dei principali fatti guerreschi, avvenuti in quegli anni, ma che ebbe nelle sue mani tutti i documenti originali della Campagna militare del Volturno e l’assedio di Gaeta.
     Re Francesco consigliato e spinto dai nemici e dagli amici, decise lasciar Napoli in balia della rivoluzione, mosso dalla grande e generosa idea di non insanguinare con la guerra civile questa sua diletta patria. Il Re il 6 settembre 1860 scendeva dalla Reggia di Napoli e saliva sulla Saetta, piccolo battello a vapore napoletano, comandato dal fedele tenente-colonnello Vincenzo Criscuolo, e partiva sull’imbrunire per Gaeta.
     I Borboni avevano regnato in Napoli 126 anni, e tutto il bello e buono, che si ammira ancora oggi in questa città ed altre, è opera di quei sovrani, scrive Buttà. Don Liborio Romano fu il più volgare traditore del Re e del regno di Napoli: la memoria di lui sarà dagli onesti esecrata e maledetta! Oltre all’avvocatuccio Liborio Romano, secondo il Buttà, vi furono quattro generali che furono i grandi traditori dei Borbone di Napoli: Ferdinando Lanza, Tommaso Clary, Alessandro Nunziante, Giuseppe Pianelli. A questi cinque uomini sono da aggiungere due zii del Re: Leopoldo di Borbone conte di Siracusa e Luigi di Borbone conte d’Aquila. Altri da aggiungere, per viltà e tradimenti, sono i generali Landi in Calatafimi, Gallotti in Reggio, Ruiz e Briganti nel Reggino, Caldarelli in Cosenza, Ghio in Sovaria-Mannelli, Pinedo in Capua, Locascio in Siracusa, Tonson la Tour in Augusta, Flores in Bovino, de Benedictis negli Abruzzi. A tutti questi gallonati fecero seguito molti ufficiali e subalterni, accennati nel corso del Viaggio.
     Tantissimi altri invece seguirono il re Francesco II nella difesa del suo Regno, nella prospettiva di una vittoria militare.
     Il libro si divide in tre epoche, la prima parla delle bande siciliane, la seconda dei garibaldini, la terza dell’invasione piemontese, e abbraccia quarantacinque capitoli. Affronta i fatti che vanno dal 3 aprile 1860 al 13 febbraio 1861, più una prefazione e una conclusione. Boccadifalco era allora un piccolo paese, sopra Palermo, dalla quale distava un paio di chilometri. In esso furono sparati i primi colpi di fucile dai rivoluzionari contro i borboni.
     Di Garibaldi, dice il Buttà, gli scrittori garibaldini descrissero lotte, battaglie, vittorie, spacciando sconfitte e distruzione di napoletani, che in verità non avvennero. Però non si dovrebbe negare che tutto quello ch’egli operò e compì nel Regno delle Due Sicilie, l’avrebbe operato e compiuto un uomo qualunque, se avesse avuto i mezzi e gli aiuti che lui ebbe. In tutti i fatti d’armi del Volturno i garibaldini ebbero sempre la peggio e perdettero più di duemila uomini tra morti, feriti e prigionieri. Sarebbe stato quello il momento di approfittare dello scompiglio e scoraggiamento dei garibaldini, e dell’entusiasmo dei soldati napoletani, ma l’ostinazione del generale in capo Ritucci, che voleva rimaner sempre sulla difensiva, ebbe la meglio, contro la volontà di Francesco II che avrebbe voluto attaccare. Il soldato napoletano ben guidato, non è secondo ad alcuno, tollera i disagi e la fame con pazienza ammirabile, battendosi da valoroso. «Io rispetto la memoria dell’onesto, e fedele e prode generale Ritucci, ma debbo pur dire che nel 1860, non si mostrò all’altezza dei tempi e delle circostanze».
     L’esercito napoletano rimase nelle proprie posizioni; quello garibaldino diminuì d’uomini e di ardire, e Garibaldi perdé il suo prestigio, tanto che dovette sollecitare la marcia nel Regno dell’esercito sardo, capitanato da Vittorio Emmanuele e dai generali Fanti e Cialdini.
     Mentre i capi napoletani discutevano, ed i garibaldini si fortificavano, negli Abruzzi, in Campania e nelle Puglie molti paesi reagirono contro i piemontesi.
     Klitsck de la Grance, scrittore di cose tattiche e veterano valoroso, fatto Colonnello, organizzò quattro battaglioni, con i quali operò negli Abruzzi.
     Non tutte le bande di briganti, che in quegli anni operarono nel Sud, sono conosciute dal Buttà, o comunque di molte di esse non ne parla.
     La Francia e l’Inghilterra erano nei fatti con il piemontese Cavour.
     Furono successivamente cinte d’assedio, con feroci bombardamenti, Capua, Gaeta, Messina e Civitella del Tronto. Capua capitolò il 2 novembre 1860, Gaeta il 13 febbraio 1861, Messina il 13 marzo 1861, Civitella del Tronto il 20 marzo 1861. Il Regno d’Italia fu proclamato il 17 marzo 1861. Il re Francesco II aveva lasciata Gaeta il 14 febbraio 1861.
     Francesco II e Maria Sofia, rispettivamente ultimo Re e ultima Regina del Regno delle Due Sicilie, si erano comportati da eroi sugli spalti di guerra di Gaeta.
     Il libro della casa editrice Bompiani contiene 64 pagine di illustrazioni, anche a colori.
Rocco Biondi

Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta. Memorie della rivoluzione dal 1860 al 1861, presentazione di Leonardo Sciascia, Bompiani, Milano 1985, [1875], pp. 480

12 aprile 2018

Cavorra, di Antonio Ciano


Il termine “Cavorra” è la fusione di Cavour e di camorra, come risulta dalla introduzione al libro di Pino Aprile e dalla prefazione dell’Anonimo Padano (forse lo stesso Ciano).
     Il libro segue lo stile proprio di Antonio Ciano, che predilige la sostanza alla forma. Oltre al suo pensiero, sono riportate molte citazioni (con tra parentesi gli autori), che sostituiscono o integrano tale pensiero.
     Il libro si costituisce di tre parti. La prima riporta la lunga lettera di Ciano al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. La seconda affronta le persecuzioni piemontesi contro la Chiesa. La terza parla del “genocidio”, ad opera dei piemontesi, contro gli abitanti del Sud.
     Nella lettera al Presidente, dopo aver elencato i tanti primati posseduti dal Regno delle Due Sicilie (per tutti ricordiamo i 443 milioni di lire, rispetto ai 668 di tutta l’Italia unificata), dopo aver riconosciuto che disoccupazione ed emigrazione nel Sud erano praticamente sconosciute, Ciano parla a lungo di Gaeta, la sua città, che nel 1860-61 subì un ferocissimo assedio dal generale piemontese Enrico Cialdini, su istigazione di Cavour. Gli scrittori e storici “salariati” parlano da molto tempo del loro Risorgimento, mentre il nostro Risorgimento è agli albori, scrive Ciano, le strade e le piazze intitolate ai loro assassini e ai loro criminali saranno cancellate dalla toponomastica delle città meridionali, esse verranno intitolate ai Passannante, Crocco, Michele Pezza, Nino Nanco, Guerra, Conte, Palma, Michelina De Cesare ecc. ecc. che combatterono da eroi contro i Savoia piemontesi. La nostra Patria, la Repubblica Italiana, è nata il 2 giugno 1946; quella che chiamarono regno d’Italia non ci appartiene. I Savoia di oggi devono pagare i debiti dei loro avi.
     Sotto Cavour (presidente del Consiglio dal 1852 al 1861, quando morì) la Chiesa subì molte persecuzioni e aggressioni. Scriveva Antonio Gramsci: «Il Risorgimento italiano è stato un movimento politico artificiale, senza basi, senza radici nello spirito del popolo, perché non è stato preceduto da una rivoluzione religiosa; il liberalismo cavourriano, separando lo Stato dalla Chiesa, non fece che spogliare lo Stato del suo valore assoluto». Cavour, dalla sua polizia, fece arrestare nel Sud non solo contadini, operai, artigiani, casalinghe, ma anche prelati, arcivescovi, vescovi, preti, sagrestani, oltre che nobili che si schieravano contro i Savoia. Cavour e il Partito liberale nel 1860 fecero pubblicare un decreto con il quale venivano espropriati le proprietà e i beni della Chiesa e degli ordini religiosi. Nei territori del Regno delle Due Sicilie 54 arcivescovi e vescovi su 61 sono messi al bando o processati. Il cardinale Riario Sforza, primo vescovo del Regno, da Napoli fu esiliato a Marsiglia. Molti monaci e preti furono fucilati. E non solo in questo Regno vi furono arresti e persecuzioni. Furono arrestati o perseguitati il cardinale Corsi arcivescovo di Pisa, il cardinale Baluffi vescovo di Imola, i vescovi di Faenza, di Piacenza, di Carpi, di Parma, e tanti parroci e sacerdoti. Il papa Pio IX mise in luce le angherie che la Chiesa subiva, denunciò la soppressione delle libertà e dei giornali di opposizione, la prigionia di vescovi e preti, le città distrutte e incendiate, le fucilazioni di migliaia di cittadini.
     Gli storici di regime proseguono l’opera sia di indottrinamento che di occultamento e mistificazione della verità storica; condannano la cosiddetta revisione storica. Noi invece, scrive Ciano, stiamo riscrivendo la storia per dare all’Italia repubblicana coscienza e dignità. L’Italia che noi vogliamo è quella nata sulle ceneri del fascismo e di casa Savoia. Non possiamo festeggiare l’invasione piemontese, le stragi e gli eccidi da essi perpetrati, la fame che hanno procurato ai meridionali, l’emigrazione biblica a cui siamo stati sottoposti. L’economia meridionale, nel 1860 tra le più ricche al mondo, oggi non esiste più. Di tutti questi mali Cavour ne è stato il maggiore responsabile. Io (Rocco Biondi) sono stato posto da Ciano tra quelli che potrebbero comandare metaforicamente delle truppe contro i vari Ernesto Galli Della Loggia, Cazzullo, Stella e Rizzo, De Marco. Se non si risolve la questione meridionale, scrive ancora Ciano, dando autonomia al sud, possibilmente in una Macro regione, l’Italia sarà attraversata da una spinta secessionistica, che ora è agli albori, ma forte.
     Da cose scritte nel libro e da numeretti si desume che erano previste foto e note.
Rocco Biondi
    
Antonio Ciano, Cavorra, Veliero Edizioni, Cirò Marina (Crotone) 2017, seconda edizione, pp. 128

3 aprile 2018

I vinti del Risorgimento, di Gigi Di Fiore


Scrive Gigi Di Fiore, nella sua introduzione al libro, che «negli Stati Uniti, la guerra di secessione, che minò l’unità di quella Nazione, viene studiata con rispetto per le ragioni e i morti sia degli Stati del Sud che di quelli del Nord. In Italia, invece, la guerra combattuta nelle Due Sicilie viene ancora liquidata, con generale sufficienza, in poche battute».
     Quella combattuta nel Sud d’Italia fu guerra civile, voluta dai piemontesi senza alcuna dichiarazione, nella quale prevalse la forza. Il vincitore ha raccontato, diffuso, insegnato nelle scuole solo la sua verità. Senza tener conto della verità dei vinti. Il Risorgimento fu quello dei vincitori coscienti; a quel processo rimase estraneo il 98% del paese, che non partecipò attivamente al Risorgimento ed era escluso dalla gestione del potere. Questo libro invece cerca di approfondire quale fu il Risorgimento dei vinti. Come e in che modo l’esercito di Francesco II difese l’idea di Patria napoletana.
     Infatti, tra il settembre 1860 e il marzo 1861, l’esercito borbonico – dice Di Fiore – uscì a testa alta a Pontelatone, Sant’Andrea, Caiazzo, Roccaromana, Triflisco, sul Volturno e sul Garigliano, nell’assedio di Capua, Gaeta, Messina e Civitella del Tronto.
     La battaglia del Volturno (1 e 2 ottobre 1860) si concluse in sostanza senza vincitori né vinti; le sorti della guerra potevano ancora essere raddrizzate dai borbonici.
     Ma in pochi mesi la «Patria napoletana» venne tradita soprattutto dal comportamento dei suoi generali che in Sicilia, Calabria, Puglia; rinunciarono a combattere, fornendo più di un sospetto sui loro atteggiamenti. A Calatafimi il generale Francesco Landi, inspiegabilmente, fece suonare la ritirata invece di inviare uomini di rincalzo, quando i garibaldini erano ormai stremati e privi di munizioni; (si dice che Landi, presso il banco di Napoli, trovò una polizza di 14 ducati, anziché quella di 14.000 ducati, promessagli da Garibaldi). Il generale Ferdinando Lanza, che aveva 75 anni, incautamente firmò l’armistizio con Garibaldi. Il colonnello Gennaro Gonzales passò con Garibaldi, tradendo il suo giuramento militare. Il generale Giuseppe Letizia entrò nell’esercito italiano, che accoglieva gli ufficiali che tradivano la propria bandiera borbonica. Il generale Fileno Briganti lasciò Reggio Calabria in mano a Garibaldi senza colpo ferire, e per questo venne ucciso dai propri soldati, bollato come voltagabbana. Giuseppe Ghio, al comando di 10.000 uomini, siglò senza combattere un accordo con i garibaldini in Calabria; nel 1875 a Napoli fu trovato morto in circostanze misteriose.
     Sedici ufficiali – scrive Di Fiore – furono ritenuti responsabili diretti dei tracolli militari in Sicilia, Calabria e Puglia. Incapaci, alcuni pavidi, altri probabilmente corrotti.
     Il re Francesco II, anche su consiglio di sua moglie la regina Maria Sofia, maturò la decisione di lasciare Napoli, sia per evitare a questa città le calamità di una guerra sia per poter difendere più liberamente (così sperava) il suo Regno. Il 6 settembre 1860 fu l’ultima giornata che il re Borbone trascorse nella sua capitale. Lasciò in deposito nel Banco di Napoli quasi undici milioni di ducati, circa cinquanta milioni di franchi d’oro, che facevano parte del suo patrimonio privato. Francesco II era convinto che sarebbe ritornato a Napoli. Non recuperò più tale somma.
     S’imbarcò, insieme alla regina Maria Sofia, sulla nave a vapore il “Messaggero”. Fu dato ordine alle navi della flotta borbonica di seguire il vascello reale. Ben 30 navi su 36 avevano abbassato la bandiera tricolore con lo stemma Borbone al centro, per sostituirla con il tricolore dei Savoia. La Marina borbonica aveva abbandonato Francesco II. Molti marinai, pur di non restare sulle navi «traditrici», anche a nuoto, mossero verso le imbarcazioni dirette a Gaeta.
     La prima a cadere in mano dei piemontesi fu la fortezza di Capua. Il 2 novembre 1860 fu siglato un accordo di tredici punti, che sancivano la consegna della Piazza, la prigionia dei soldati, la partenza per Napoli degli ufficiali borbonici. L’esercito piemontese si trovò alle prese con la gestione di un numero enorme di prigionieri di guerra: oltre diecimila. Furono spediti nelle prigioni del nord, nella speranza di convincerli ad arruolarsi nell’esercito piemontese. Ma molti fuggirono.
     Ciò che restava dell’esercito borbonico era ormai quasi tutto nella fortezza di Gaeta. Altri soldati combattevano alla difesa delle fortezze di Messina e Civitella del Tronto, ma nella Piazza di Gaeta, si racchiudevano tutti i simboli politici del Regno delle Due Sicilie: il Re e la Regina con la corte, il Governo, alcuni ambasciatori esteri. Il re nominò Pietro Vial alla guida del Governo provvisorio della Real Piazza. Il morale, per il momento, era molto alto.
     Il vero e proprio assedio di Gaeta cominciò il 13 novembre 1860. Per il primo mese, le batterie piemontesi si limitarono a saggiare il tiro. Il governatore borbonico Vial, per la predisposizione dei lavori necessari alla difesa, si fece affiancare di otto ufficiali.
     La vita dentro le mura della fortezza borbonica scorreva in modo assai meno comoda che nel campo piemontese. Cimici, pulci e blatte avevano invaso molti alloggi. La penuria di cibo, oltre che alle persone, si estendeva anche ai cavalli e ai muli.
     Il bombardamento piemontese si intensificò e acquisì sempre più precisione. La flotta francese, che con la sua sola presenza costituiva uno scudo per Gaeta, abbandonò il campo. Dai bombardamenti fu colpito prima il magazzino di munizioni di Sant’Antonio e poi quello detto di Transilvania, oltre ad altre batterie. Morirono ufficiali e molti soldati. Oltre che dalle bombe Gaeta fu colpita anche dal tifo. La regina Maria Sofia volle rimanere accanto a suo marito, il re Francesco II. Il mito della regina «eroina di Gaeta» si alimentò soprattutto con quegli episodi quotidiani, che circolavano nei racconti tra i soldati, che narravano le visite di Maria Sofia ai feriti negli ospedali e il coraggio infuso agli artiglieri sugli spalti.
     Il 13 febbraio 1861 fu firmata la capitolazione di Gaeta, in 23 articoli, tra i napoletani e i piemontesi; ma i bombardamenti da parte di questi ultimi continuarono. Il giorno successivo il Re e la Regina, con il seguito, si imbarcarono sul piroscafo francese “Mouette”. Furono ospitati da Papa Pio IX a Roma, al Quirinale.
     La bandiera borbonica sventolava ancora sulle fortezze di Messina e Civitella del Tronto, dove i soldati non volevano saperne di cedere; resistevano per il loro re in esilio. Messina cadde il 13 marzo 1861. Civitella del Tronto il 20 marzo 1861. Il Regno d’Italia fu proclamato il 17 marzo 1861. La consultazione elettorale promossa dal governo Cavour si era tenuta il 27 gennaio 1861, quando ancora Francesco II stava a Gaeta; vi partecipò l’1,9% della popolazione del futuro Regno d’Italia. La prima riunione del Parlamento si tenne a Torino quattro giorni dopo la capitolazione di Gaeta.
     Dal 20 marzo 1861 – scrive Di Fiore – cominciava un’altra guerra: quella degli ex soldati sbandati, dei contadini, dei pastori, anche degli ex garibaldini delusi, che si erano dati alla macchia sulle montagne della Lucania, degli Abruzzi, della Puglia, della Campania, della Calabria. Una vera e propria guerriglia contro l’«invasore», che sarebbe andata avanti, in maniera aspra e con migliaia di morti, per almeno cinque anni. Era la ribellione dei briganti postunitari.
     Tra i ribelli i più noti furono Carmine Crocco in Lucania, Pasquale Romano in Puglia, Cosimo Giordano nel Matese, Pietro Monaco in Basilicata, Antonio Cozzolino nell’area vesuviana, Luigi Alonzi nella Ciociaria.
     Per i soldati borbonici prigionieri furono realizzati dei veri e propri campi di prigionia. Tristemente famosi furono quelli del forte di San Maurizio Canavese a Genova e della fortezza di Fenestrelle vicino Torino.
     Il libro contiene settantotto pagine di note, nelle quali sono riportate principalmente le biografie e le storie degli ufficiali e dei soldati che combatterono per i Borbone di Napoli.
Rocco Biondi

Gigi Di Fiore, I vinti del Risorgimento. Storia e storie di chi combatté per i Borbone di Napoli, UTET, Torino 2004, pp. 362